«Fra giungla e narcos ancora da scoprire decine di città Maya»

L’archeologo italiano Francisco Estrada Belli spiega come ha trovato l’antico sito di Cival, abitato prima del 300 a.C.

La presenza di alcuni pezzi di Cival, importante città maya del Preclassico, nella mostra al Metropolitan Museum di New York in corso fino al 10 settembre è la consacrazione delle ricerche che un giovane archeologo italiano emigrato negli Stati Uniti, Francisco Estrada Belli, ha condotto in questo sito tanto importante quanto sconosciuto fuori dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori. Ne parliamo con lo stesso Estrada Belli.
A oltre 150 anni dalle spedizioni di Stephens e coi satelliti che possono riprendere anche oggetti di pochi metri, sembra incredibile che ci siano ancora città sepolte nella foresta pluviale. Eppure è così. Come è possibile?
«Senza esagerare, si può dire che ci sono ancora decine di città maya da scoprire nella zona centrale della penisola dello Yucatan, negli stati di Campeche, Quintana Roo in Messico e nel Nord del Guatemala. Il motivo è semplice: questa zona è ricoperta dalla più fitta foresta tropicale. Sono luoghi remoti, senza vie di accesso. Essendo coperte da alberi immensi, le città sono poco visibili dallo spazio, anche se ora stiamo facendo progressi per identificarle con sicurezza. Poi, specialmente in Guatemala ci si trova un po’ nel “Far West”. Fino a dieci anni fa questa zona era il regno di guerriglieri e narcotrafficanti. Oggi, anche se la guerra è finita ufficialmente, c’è ancora il pericolo di incontrare bande di narcos o altri malintenzionati. La ricerca è quindi ancora difficile e poco diffusa. La mia zona fortunatamente è un po’ più tranquilla della media, almeno finora. C’è poi da dire che essendo destinata a rimanere parco naturale, la ricerca deve avanzare lentamente per non danneggiare flora e fauna. Insomma, anche se ci fosse un esercito di archeologi invece dei pochi di oggi, ci sarebbe molto da scoprire e per molti anni».
Come ha trovato Cival?
«Abbiamo trovato Cival durante i percorsi di rilievo intorno del sito di Holmul, città del periodo Classico ben nota. Ci era stato detto che c’erano vari siti al nord, e fra questi un possibile sito Preclassico (800 a.C.-200 d.C.). Per arrivare ci siamo serviti di una foto satellitare, perché le mappe sono inesistenti. Non ci aspettavamo una grande città, come poi si è rivelata Cival. Il mascherone della Struttura 1 del Gruppo Triadico, una costruzione alta 33 metri del centro cerimoniale, era interrato sotto una piramide più recente che lo ricopriva completamente. C’era un tunnel scavato dai “tombaroli” del luogo che penetrava per molti metri all’interno del basamento della piramide più recente. Notai un piccolo foro nella parete del tunnel che lasciava intravedere dei blocchi ben levigati. Infilando la mano più all’interno sentii le forme di un bassorilievo. Pensai fosse un serpente il cui corpo era giusto largo come il palmo della mia mano. Dopo lo scavo ci rendemmo conto che il “serpente” era un ornamento sull’orecchio di una gigantesca maschera antropomorfa di cinque metri di larghezza e tre di altezza. Ci sono volute due campagne di scavo per scoprire i due mascheroni che decoravano la facciata di questo tempio».
Rappresentano il Signore Sole?
«All’inizio ci sembrava una forma arcaica del Dio Sole o del Dio del Mais. Ora, dopo due anni di ricerca sono convinto che sia una forma ancestrale del Dio della Tempesta, una divinità fra le più sacre del pantheon Maya».
Che cos’altro ha scoperto?
«A Cival abbiamo scoperto una stele con il ritratto di un governante del Preclassico che secondo lo stile e la stratigrafia è la più antica dell’Area Maya (circa 200 a.C.) e un’offerta eccezionale di giade e anfore del 700 a.C. che richiama la forma del cosmo e i motivi rituali dell’epoca Classica. Questo è uno dei primi segnali della nascente ideologia che porta i governanti maya a identificarsi col Dio del Mais e gli dei della creazione, come il Dio del Fulmine Kawil. Questo è il tema principale della mostra “Lords of Creation” e dimostra per la prima volta che c’erano re divinizzati anche nel Preclassico e questi usavano gli stessi simboli cosmici dei loro discendenti del Classico».
Quali difficoltà ci sono a lavorare nella foresta?
«È un’avventura in un posto fantastico dal punto di vista naturale e archeologico. Siamo a tre ore di guida su una mulattiera per veicoli 4x4, durante la buona stagione, che dura solo 3-4 settimane. Per il resto del tempo siamo circondati da paludi e la giungla riprende possesso dei sentieri. Più di una volta siamo dovuti entrare e uscire a dorso di mulo (8-10 ore a tratta). Come è facile immaginare, non si può andare in paese a fare la spesa ogni volta che finisce il sale o lo zucchero. Quindi la logistica è molto impegnativa e va pianificata bene, altrimenti non si mangia o si rischia di essere bloccati in caso di emergenza. È capitato un po’ di tutto durante le nostre campagne di scavi, dai tornado che fanno cadere alberi sulle tende ai chicchi di grandine grandi come arance, ai morsi di serpenti seguite da corse notturne all’ospedale attraverso le paludi inondate. Comunque, tutte le difficoltà sono ripagate da resti archeologici fra i più spettacolari dell’Area Maya».
Perché è importante Cival?
«Cival è uno dei siti maya più grandi e densamente popolati, ha piramidi imponenti e si distingue da gran parte delle altre città per esser stato occupato esclusivamente durante il periodo Preclassico (prima del 300 d.C., ndr), cioè prima dell’inizio ufficiale dell’epoca delle grandi città che tutti conosciamo. Non è l’unica, certamente, ma è una delle poche conosciute fuori dall’area di El Mirador, il sito che per le sue dimensioni imponenti era finora considerato un’eccezione. La posizione di Cival dimostra che le città erano sparse su gran parte dell’Area Maya. Poi, Cival inizia a essere costruita anche prima di El Mirador, quindi gli inizi delle società statuali maya non appaiono più tanto repentini, né limitati alla zona nucleo di El Mirador. Insomma Cival dimostra che le città del Preclassico nascono e si sviluppano molto prima e su un’area molto più estesa di quanto si pensasse. Essendo questo periodo in gran parte sconosciuto a noi archeologi, è come se ci fosse una nuova civiltà tutta da scoprire. Per noi questa è la nuova frontiera dell’archeologia maya».
Come fa un giovane archeologo italiano a diventare professore alla Vanderbilt University?
«Ci vuole perseveranza e non poca fortuna. Ci sono borse di studio offerte dai governi Usa e italiano, ma sono poche. Si può fare domanda direttamente alle università, perché molte borse di studio non sono pubblicate in Italia. Bisogna farlo con molto anticipo ed essere assolutamente convinti della scelta. Dopo aver conosciuto degli studenti americani e un professore durante un corso di scavo a Roma, ho fatto domanda alla loro università, la Boston University, e anche ad altre. Credo che essere un candidato conosciuto mi abbia aiutato perché solo la Boston University mi ha risposto positivamente. Il mio consiglio ai giovani che aspirano a fare un dottorato di ricerca negli Usa è partecipare a un progetto di ricerca in Italia o all’estero diretto da un’università statunitense, prendere i primi contatti e poi avere la costanza di riproporre la domanda anche più di una volta finché si viene ammessi. I dottorati negli States sono piuttosto intensi e non lasciano allo studente la stessa autonomia di cui si gode in Italia. Bisogna rispettare gli orari di frequenza, consegnare lavori in continuazione. Poi c’è la campagna di scavo. E poi si ricomincia di nuovo con le lezioni, senza una pausa. Finito il dottorato, inizia la ricerca del posto di insegnamento e la concorrenza è forte, specie per l’archeologia maya. Molto dipende da quanto si è portati all’insegnamento e dalle lettere di supporto dei professori, oltre che dalle pubblicazioni».
Che differenze ci sono tra l’archeologia fatta negli Usa e quella fatta in Italia?
«Ho l’impressione che i miei colleghi italiani nelle università e nel settore pubblico si dedichino meno alla ricerca pura dei miei colleghi universitari Usa.

Negli Usa gran parte dei miei colleghi si dedica a quel tipo di ricerca che ha soprattutto lo scopo di creare o convalidare teorie di valore antropologico. Le università italiane e lo Stato, inoltre, dovrebbero investire di più nell’archeologia per essere alla pari con gli altri Paesi sviluppati.

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