Controcultura

Giungle, armadilli e piroghe. E nacque il mito Attenborough

Il re dei documentari racconta (con umorismo) gli esordi fra mille difficoltà. E un grande amore per gli animali

Giungle, armadilli e piroghe. E nacque il mito Attenborough

I viaggi del giovane David Attenborough negli anni Cinquanta, quando ancora non era né Sir né un'icona della televisione, ricordano un po' ciò che lui stesso dice a proposito di una delle creature di cui andò «a caccia», per poterla filmare e poi offrire agli occhi del pubblico inglese, l'armadillo: «Un amalgama di esotico, di fantastico e di antico, che l'aggettivo strano può sintetizzare solo in modo inadeguato». Una qualità che, secondo il re dei documentari sulla natura (è nato a Isleworth, vicino a Londra, nel 1926, come Sua Maestà Elisabetta II), è «più affascinante di qualunque altra», e che è estremamente... British, proprio come Sir David.

Allora, bisogna immaginarsi un ventiseienne produttore televisivo, assunto dalla Bbc come apprendista nel 1952 (quando anche il piccolo schermo viveva ancora il suo apprendistato), con una laurea in Zoologia, che si trovò ad avere a che fare con due tipi di programmi dedicati agli animali: uno, condotto dal direttore dello Zoo di Londra, che andava in onda dal vivo, in studio, con creature mansuete (ma comunque imprevedibili, spesso con effetti comici); l'altro, proposto da una coppia pionieristica, che mostrava animali spettacolari come elefanti, leoni e giraffe ripresi a casa loro, nella savana africana (senza però gaffes esilaranti). David Frederick Attenborough non era soddisfatto. Desiderava realizzare un programma sugli animali che mantenesse i pregi di entrambi gli esempi disponibili; lui non avrebbe fatto il presentatore (gli avevano sconsigliato di provarci, per via dei dentoni...), bensì il regista e, nel suo progetto, avrebbe filmato l'amico Jack Lester, curatore del rettilario dello Zoo di Londra, mentre ricercava e poi catturava gli animali nel loro ambiente e successivamente, nella quiete dello studio londinese, ne mostrava le caratteristiche. Insomma un mix perfetto, con un solo dettaglio: serviva qualcuno che lo finanziasse. Attenborough e Lester riuscirono a convincere i vertici dello Zoo e della Bbc, ma fu più complicato trovare un operatore disposto a girare con la pellicola da 16 mm, anziché quella da 35 allora in uso, perché dalle maestranze era considerato quasi un delitto. Così Attenborough si affidò a Charles Lagus, un freelance (in tutti i sensi), appena tornato da una spedizione sull'Himalaya a caccia dell'uomo delle nevi. Per migliorare la qualità del girato furono obbligati a scegliere pellicole prevalentemente a colori, riservando quelle in bianco e nero a casi di grave mancanza di luce (il che si verificò immediatamente, appena messo piede nell'intrico della foresta pluviale della Sierra Leone). Poi cercarono un titolo per il programma e un animale raro che attirasse il pubblico: un uccello dal nome improponibile, il «picatarte collobianco». Beh, David era perplesso, ma l'amico Jack era così convinto... che nacque Zoo Quest, una serie destinata a durare quasi dieci anni, fino al 1963, e a segnare sia la storia dei documentari e della divulgazione scientifica, sia la vita di David Attenborough: infatti, dopo la prima puntata, andata in onda nel dicembre del 1954 con grande successo, Jack Lester fu ricoverato in ospedale, e l'amico fu costretto a sostituirlo (senza aumento di stipendio).

Se si leggono i diari, tenuti da Attenborough durante le spedizioni per realizzare Zoo Quest, ora raccolti in Avventure di un giovane naturalista (Neri Pozza, pagg. 380, euro 19), sembra di tornare indietro nel tempo, all'epoca di Alexander von Humboldt, con un tocco del dottor Livingstone e uno di Indiana Jones: dalla Guyana britannica all'Indonesia al Paraguay, quelle raccontate con passione e umorismo dal protagonista sono peripezie da esploratore vero, coraggioso e incosciente, curioso e gentile, ironico e straordinariamente aperto all'altro, sia esso un bradipo che cerca di fuggire al rallentatore o un piai, uno sciamano che cerca di guarire i malati invocando gli spiriti, un piccolo coati rosso che gli si infila nelle tasche e gli morde le orecchie o un lamantino, la «sirena» della giungla che, una volta catturato, pare un enorme sacco di sabbia...

David Attenborough, già Sir in pectore, non perde l'aplomb nemmeno quando deve catturare un pitone, anche se non ci ha mai provato in vita sua, e deve arrabattarsi con corde e sacchi, o quando deve avventurarsi sull'isola di Komodo, per scovare e filmare il celebre drago (un lucertolone affamatissimo): infatti, oggi a Komodo si arriva agevolmente, e le guide portano i turisti a osservare il drago, ma allora, tanto per capire le difficoltà, a Bali si arrivava solo via mare e c'era un solo altro europeo, oltre al gruppo della Bbc, e su quell'isoletta sperduta non andava nessuno. Ma Attenborough non si scoraggia, anzi, rassicura i compagni: «È semplice... Prima voliamo a Makassar, e poi da lì a Maumere, dove troviamo il cognato del nostro amico cinese, noleggiamo un autocarro, percorriamo duecento miglia fino all'estremità opposta di Flores, ci procuriamo una piroga, o qualcosa del genere, e navighiamo per cinque miglia fino a Komodo. Poi non dobbiamo fare altro che trovare un drago». Ovvio che nulla, a parte la conclusione, sia andato davvero così...

Dagli idrovolanti nella giungla alle guide pittoresche, dalle maledizioni degli sciamani alle mucche aggressive, gli imprevisti sono all'ordine del giorno, in queste Avventure e sembra davvero un miracolo che, da tanti ostacoli, cambi in corsa e improvvisazioni siano nati dei filmati che hanno rappresentato la storia della televisione.

E hanno fatto innamorare milioni di persone della natura, e di uno dei suoi narratori più appassionati.

Commenti