Il giurista anti lavativi: «Un altro pessimo segnale troppo lassismo in Italia»

Il giurista anti lavativi: «Un altro pessimo segnale troppo lassismo in Italia»

Professor Pietro Ichino, il contratto rinnovato il 14 luglio scorso ha portato ai dipendenti pubblici, oltre a 101 euro di aumento, il “regalo” della non licenziabilità per assenze ingiustificate. Prima, almeno sulla carta, l’opzione esisteva. Siamo condannati a tenerceli per sempre, qualunque cosa facciano - o non facciano - i fannulloni del pubblico impiego?
«L’Aran (l’Agenzia governativa per la contrattazione con il pubblico impiego, ndr) giustifica la modifica del contratto con il fatto che il licenziamento finiva col non essere mai applicato, mentre la sanzione minore può costituire un’opzione più realistica», spiega il giuslavorista che della battaglia contro i pubblici lavativi ha fatto una bandiera.
E lei come giudica l’interpretazione fornita dall’Aran?
«Dissento nettamente. In realtà nulla vietava che un’amministrazione più indulgente adottasse anche prima la sanzione minore, ma di fatto non veniva adottata neppure quella. Ora, però, con questa modifica si dà il segnale sbagliato».
Quale, professore?
«Quello di un maggiore lassismo, e proprio nel momento in cui si dichiara di voler dare un segnale contrario».
Se lo aspettava?
«No, nessuno se lo aspettava ed è francamente sorprendente».
Viene da chiedersi se sia possibile sollevare questione di legittimità. Perché mai questa disparità, dal momento che dovremmo essere tutti uguali davanti alla legge, pubblici o privati...
«Non c’è dubbio che il controllo su efficienza e produttività degli impiegati pubblici in Italia sia oggi molto meno rigoroso rispetto a quello a cui sono normalmente assoggettati i dipendenti privati. In particolare, nei contratti collettivi privati è normale che sia previsto il licenziamento per un’assenza ingiustificata protratta oltre i cinque giorni».
Perché, allora, lo stesso non deve valere per i pubblici?
«Non c’è una sola ragione al mondo per cui una regola analoga non debba essere contenuta anche nei contratti collettivi del settore pubblico. Quando si parla di regolamento contrattuale di un rapporto, si ammette la possibilità di regolamenti diversi secondo la volontà negoziale delle parti. Qui, però, chi ha negoziato questa modifica del contratto, in un contesto politico nel quale ci si sarebbe attesi semmai una scelta esattamente contraria, dovrà spiegare il motivo dell’opzione».
Ce lo teniamo così, allora, questo contratto?
«Osservo che a quanto mi risulta il contratto non è stato ancora formalmente sottoscritto dal ministro competente. Questi può quindi ancora esigere una rinegoziazione di questa clausola».
Lei su questo ci fa affidamento?
«Io ci spero, dato che gli errori sono fatti per essere corretti e visto che siamo ancora in tempo per farlo».
Lassismo tutto italiano? Come si regolano nel resto d’Europa?
«In Europa le fonti di regolamentazione sono diverse. Di norma la materia è oggetto di regolamento legislativo o ministeriale, con contenuti più generici rispetto a quelli dei nostri contratti collettivi nazionali. Il confronto è quindi molto difficile se ci limitiamo alla law in the code, cioè al diritto scritto; ma se spostiamo il discorso sulla law in action, possiamo dire con certezza che controlli e sanzioni in Italia vengono di fatto applicati con molto maggiore lassismo rispetto a quanto accade negli altri Paesi europei».


Pensa che l’esempio di politica sempre pronta ad autoassolversi possa essere di scarso aiuto?
«Mi sembra che in questo momento i rapporti tra ceto politico e magistratura siano ispirati a un accettabile rispetto reciproco e non a un’idea dell’impunità dei rappresentanti politici che si collochino al di sopra di ogni legge o di ogni controllo. Sta di fatto, comunque, che il ceto politico non è né migliore né peggiore della società civile che lo esprime: i difetti della società civile si riflettono in quelli dei nostri rappresentanti politici. E viceversa».

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