Enrico Groppali
Ci sono copioni che fanno subito capire non solo il pensiero dell'autore ma a cosa tende il suo discorso espressivo. Nemmeno Shakespeare sfugge a questa regola aurea. Ma ci sono autori come Eduardo, che conclude la grande parabola pirandelliana persino quando, com'è il caso di Io, l'erede, si abbandona al piacere della narrazione in un canovaccio prima abbordato nel prediletto dialetto napoletano e poi steso in lingua. Eduardo scardina lo schema di Tartufo presentandoci non un truffatore matricolato ma uno dei suoi inguaribili sognatori che si presenta in una casa borghese che è, metaforicamente, l'immagine stessa di Napoli con le sue bassezze ataviche e con la sua atavica generosità indissolubilmente unite dalla fantasia, assumendosi la parte recitata anni prima da un padre che non ha mai conosciuto. Ma Ludovico Ribera, questo il nome dell'alter ego di Eduardo, fa qualcosa di più. Perché oltre ad essere un carattere da farsa è l'incarnazione della coscienza dello strato sociale col quale si confonde. E così accade che, mentre l'immortale Tartufo di Poquelin viene scorbacchiato dalla couche sociale che l'aveva adottato, Ludovico che pareva destinato a fare la stessa fine, al termine di questa farsa tragica sbugiarda la società in cui si è inserito diventandone sia il Nume Tutelare che il Vindice. Andrée Ruth Shammah ha fatto levitare questa materia incandescente al calor bianco della scena asettica ed elegante di Gian Maurizio Fercioni. Le cui candide paratìe, le chiare cristallerie da tavola e l'argenteria scintillante alludono con ironia al sepolcro imbiancato di un'etica e di un costume che sono tali solo all'apparenza. E ha concentrato tutta la sua attenzione sul gioco a rimpiattino di questi mostri impomatati che paiono statuine di Capodimonte vomitate dall'inferno del Magnasco. Ne nasce uno spettacolo di grande virtuosismo epico e di magnifica fattura. Dove, accanto alla spiritosa Marianella Bargilli e all'untuosa levità di Umberto Bellissimo, Leopoldo Mastelloni rifà caricaturalmente una Dorotea che somiglia alla Proclemer e Geppy Gleijeses, in un momento di splendida maturità, si ritaglia lo spazio di un'interpretazione che sa di Maiakovskij.
IO, L'EREDE - di Eduardo De Filippo.
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