La globalizzazione del degrado, ora tutto il mondo è una banlieu

Il 50 per cento della popolazione mondiale abita nelle aree urbane. E di questo, un terzo in zone marginali

La globalizzazione del degrado, 
ora tutto il mondo è una banlieu

«Banlieues, banlieues / le paradis des gens heureux» («Periferia, periferia/ para­diso d’allegria»), intonava negli anni Cin­quanta Robert Lamoureux. Periferia popo­lare, quasi sobborgo: la cantavano Jacques Prévert e René Fallet, la fotografavano Edouard Boubat e Robert Doisneau. Era quella del mutuo soccorso e della solidarie­tà fra «gente da poco». Mezzo secolo dopo, periferia è inferno per diseredati, ostaggi e testimoni impotenti, perché ridotta a disca­rica di rifiuti urbani e «uomini di troppo» di metropoli rese dormitori per quadri supe­riori e nuovi piccolo- borghesi «introdotti». Per via degli immigrati, oggi il problema della periferia francese è, per la destra, pro­blema etnico; per la sinistra, problema so­ciale. Ma sono aspetti indissociabili e so­prattutto il fenomeno della periferia va ben oltre, né lo si risolve attenendosi da un lato agli incubi sull’«islamizzazione»e dal­­l’altro alla «cultura della scusa».

Infatti co­munità in senso sociologico e in senso poli­tico non vanno confuse. La periferia non si compone tanto di comunità organizzate, quanto di un caravanserraglio di varie po­polazioni, artificialmente giustapposte. Né esse si dividono fra discriminanti e di­scriminate, abbienti e non abbienti. E non c’è solo la questione sorveglianza-control­lo, come quando le «classi pericolose» era­no sorvegliate e l’habitat era una forma di disciplina sociale. I «giovani di città» non discutono il siste­ma che li esclude. Cercano meno il ricono­scimento che la scorciatoia al denaro. Nul­la di meno contestatore della violenza di periferia- violenza bruta, frutto di un malu­more convulsivo senza discorso politico o rivendicazione. Nessuna rivolta nel senso di: «Non siamo niente, vogliamo tutto!». Regnando con lo spaccio, la violenza e il terrore sui quartieri «sensibili», i delin­quenti evocano il lumpenproletariat di Marx.«Feccia di corrotti d’ogni classe, con quartier generale nelle metropoli, esso è ­scrive Engels - l’alleato peggiore». I suoi modelli non sono l’Islam o la rivoluzione, Lenin o Maometto, ma Al Capone e Ber­nard Madoff (del resto la delinquenza dei grossi predatori finanziari è più nociva del­le plebaglie di periferia). Mentre l’econo­mia criminale è ormai un sotto-prodotto dell’economia globale, i criminali voglio­no solo adattare alla base, brutalmente, pratiche verticistiche. Per divenire - dice Jean-Claude Michéa - «golden boys dei bassifondi».

Da questo punto di vista, i «ragazzi della periferia» dei quali si denunciano ovun­que rifiuto o incapacità d’integrazione nel­la società, sono integrati nel sistema. Cre­dere la delinquenza «giovanile» esito mec­canico di miseria e disoccupazione non fa capire ciò che,nella logica d’accumulazio­ne del capitale, legittima quell’atteggia­mento: valori diretti solo al profitto e al suc­cesso materiale, lo spettacolo del denaro facile, il cui esempio viene dall’alto. E con­temporaneamente significa camuffare la violenza nei rapporti sociali del sistema ca­pitalista - ritorno a un capitalismo selvag­gio, cui corrisponde la nuova, selvaggia conflittualità sociale. La disintegrazione della periferia riassume la decomposizio­ne del mondo occidentale. Esse sono sinto­mo di una dissociazione generale. La scon­fitta dell’«integrazione» non risulta solo dall’assenza di volontà d’integrarsi,ma an­che dalla scomparsa di ogni modello che spieghi perché integrarsi.

E integrarsi in che cosa, poi? In un Paese, una società, un sistema di valori, un supermercato? Per Jean Baudrillard, «disintegrandosi, una so­cietà non può integrare gli immigrati, per­ché essi sono sia il risultato sia l’analista sel­vaggio della disintegrazione ». Gli immigra­ti soffrono d’una crisi d’identità in una so­cietà che non sa più che cos’è, da dove vie­ne, dove va. Ci si stupisce che disprezzino il Paese dove vivono, ma il Paese è incapace di definirsi. I «giovani» dovrebbero amare una Francia che, oltre a non amarli, non ama se stessa. Con più del 50 per cento della popolazio­ne mondiale che vive nelle città e più di un terzo degli abitanti delle città che vive nelle baraccopoli, si può parlare di «periferizza­zione » del mondo. Infatti ovunque ci sono le stesse tendenze all’urbanesimo antiso­ciale che hanno condotto all'attuale perife­ria. Oggi si capisce la periferia solo nella consapevolezza di una profonda mutazio­ne che, nell’epoca della tarda modernità, ha colpito la città. La metropoli non è più entità spaziale ben determinata, luogo dif­ferenziato, è un «agglomerato», una zona le cui metastasi («unità abitative», «grandi insiemi»e«infrastrutture»)s’estendono al­­l’infinito, proliferando in modo anarchico in periferie che scivolano lentamente nel nulla. Henri Lefebvre parlava d’un neces­sario «diritto alla città». Ma la grande città non è più un luogo. È uno spazio che si di­spiega distruggendo il sito e sopprimendo il luogo. È dis-misura e il-limitazione.

È pu­ra estensione, cioè de-localizzazione in senso proprio.E realizza l’ideale dell’urba­nismo come t­ecnica storicamente associa­ta all’invenzione della prospettiva ( che ren­de integralmente geometrico lo spazio) e del razionalismo funzionale (che applica l’igienismo all’architettura). Urbanizzare - scrive Jean Vioulac - «non è più installare l’uomo nel sito della città, cioè in un centro, in un polo dal quale il mondo si dispieghi e si dia un senso.È l’as­senza di un polo a definire periferia... Ban­lieue è essere bandito (banni) da ogni luo­go (lieu)».

Banlieue è un non-luogo. Ci si vive (o sopravvive), non ci si abita. Il dram­ma è che oggi la società denuncia mali ( ur­banesimo selvaggio e immigrazione incon­trollata) da lei stessa causati, deplorando­ne gli esiti.

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