Ma la gogna non tocca gli alti burocrati

La gente comune si infuria con i politici, mentre del «secondo livello» del sistema non si sa più niente Il generale Pittorru, il dirigente Incalza, il giudice Sancetta: per la nomenklatura nessuno si indigna

Ma la gogna non tocca gli alti burocrati

Il generale e il giudice. Il grand commis e l’alto funzionario. Favori, piccoli o grandi, appartamenti consegnati chiavi in mano, guadagni ingenti. E la bandiera della decenza calpestata come uno straccio sporco. È difficile, con le inchieste ancora in movimento, fotografare la nomenklatura dei furbastri che dovrebbero essere la spina dorsale e invece sono la vergogna dello Stato. Non tutto è chiaro, anzi molto, troppo, dev’essere spiegato. E però l’opinione pubblica s’indigna e si gonfia come vela al vento davanti alle imbarazzanti vicende dei politici, amici degli Anemone di turno. Gli Scajola e tutti gli altri che seguiranno. È il terzo livello. Ma quando si parla del generale Francesco Pittorru, ufficiale che ha giurato fedeltà alla Repubblica, quando si incontrano le funamboliche e avvilenti intercettazioni del giudice della Corte dei conti Mario Sancetta, quando, ogni tre righe, ci si scontra con il potentissimo numero uno del Consiglio superiore dei lavori pubblici Angelo Balducci, si resta sgomenti. Episodi tutti da provare, per carità, ma che fanno scattare l’allarme perché danno lo spessore di uno spicchio consistente della classe dirigente italiana. Il secondo livello. Inquinato come e più del terzo. Eppure l’opinione pubblica sembra scivolare indifferente su questa galleria muta di personaggi, in bilico fra grandi appetiti e piccole meschinerie. E questi potenti in uniforme restano abbarbicati alle loro prebende, non si dimettono, non chiedono scusa.
Il generale Francesco Pittorru, uno dei pezzi forti delle Fiamme gialle e poi dei servizi segreti, finisce risucchiato dentro la lista Anemone. Una manina servizievole ha pagato la casa scajolana con vista sul Colosseo? Lui ha fatto di meglio, ne ha avute due: una per figlio. Imbarazzante. Ma nessuno protesta, circonda la piccola reggia o srotola striscioni. Nemmeno quando l’alto ufficiale prova a mettere su questa storia una pezza alla Arlecchino. Un documento, una scrittura privata, proverebbe che sì Anemone ha sborsato quelle cifre, ma era un prestito. Chiede tempo il generale e dice che in Sardegna custodisce la carta ammazza-Anemone. I magistrati gli danno tutto il calendario che vuole, figurarsi, lui va e torna a mani vuote. Quelle carte, sfortunatamente, gli sono state rubate. Sembra una pessima riedizione dell’Italietta badogliana che a cavallo dell’armistizio gioca all’equivoco, fa finta di non capire i proclami degli alleati ma mette in salvo i conti e non sa cosa sia l’onore. Il generale 007 se ne va? Per ora non è schiodabile e resta all’Aisi.
Ercole Incalza, potente dirigente delle Infrastrutture, è al centro di una piccola querelle: si dimette, no, non si dimette. Le versioni si accavallano, lui resta, anche se il suo nome è fra i primi restituiti dalla solita lista Anemone. Incalza, ingegnere, brindisino, avrebbe dato l’imbeccata giusta al genero, poi planato nei 170 metri quadri di un antico palazzo signorile al quartiere Flaminio di Roma, con l’aiuto del solito sistema di assegni circolari già visto per Scajola. Incalza era già finito nella rete dei magistrati, negli anni Novanta, all’epoca della Tav, era stato agli arresti domiciliari e allora si era dimesso per davvero. Ma poi era tornato fra i gangli vitali della pubblica amministrazione, la strada aperta come un rompighiacci dalle dichiarazioni del suo avvocato: «Per lui ci sono stati 14 proscioglimenti e mai una condanna». Un record.
Oggi Incalza si dichiara innocente un’altra volta. Vedremo. Ma certo, stupisce sapere che è ai vertici della macchina statale, lui che era in cima alla piramide nelle Fs famigerate di Lorenzo Necci e del finanziere Pierfrancesco Pacini Battaglia, protagonista di numerose puntate di Tangentopoli.
Mario Sancetta, invece, è una new entry. Sancetta non è nella lista Anemone, non è entrato nel girotondo dell’architetto Zampolini, non riceveva gli assegni circolari. Però al telefono con tale Rocco Lamino andava al punto: «Io c’ho una cameriera che mi ha rovinato un bagno fatto da poco... che c’era la vasca... volevo mettere magari la cabina doccia». Detto fatto, i lavori possono cominciare nel giro di una manciata di giorni. E l’amletico magistrato contabile, uno che dovrebbe vigilare sui bilanci e sulle spese e sul rispetto certosino delle procedure, chiede al suo scafato interlocutore: «È più conveniente, come magistrato della Corte dei conti, occuparsi del ramo Anas o di quello Eni?». Strategico, Sancetta, ma anche duttile, come chi è capace di passare con disinvoltura dalle strade alla cabina doccia.
Angelo Balducci invece non è ma era l’onnipotente e onnipresente presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Ex, perché in manette. Un’autorità, rotolata nella polvere. Per i magistrati era uno dei perni del sistema gelatinoso. Affari obliqui, furberie, il potere come arroganza, i grandi eventi trasformati in una gigantesca torta per saziare l’ingordigia della cricca.

Un pezzo dell’alta burocrazia - quella che in Francia o in Inghilterra trasmetterebbe la certezza di curricula sfolgoranti, di studi a Eton o all’Ena, di fedeltà alla tradizione - che raccomanda il figlio per la fiction, frequenta i bassifondi del clero e a verbale mette il sigillo sulla sua opaca e sfacciata opulenza: «Guadagno 2,5 milioni l’anno». È il secondo livello. È l’ossatura dello Stato. Anche se gli italiani guardano al Palazzo della politica.

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