Salvo Mazzolini
da Berlino
All'inizio era tifo, legittimo, comprensibile, scontato. Chiassoso e incontrollato ma come sempre nel mondo del calcio. E nelle scene di giubilo dei tedeschi per le vittorie della propria squadra non c'era nulla di eccezionale, nulla che non fosse già visto. Caroselli di auto nelle allee delle grandi città, sventolio di bandiere, gente che balla, canta e si riempie di birra nelle strade fino alle ore piccole, adulti e bambini con il volto dipinto con i colori nazionali, nero, rosso e giallo. Ma a mano a mano che la squadra avanza dimostrandosi forte, solida, compatta e vincente, si sono aggiunti nuovi motivi ad alimentare l'entusiasmo.
Non più solo tifo ma orgoglio per una squadra che in un Paese ancora profondamente diviso rappresenta tutti, tedeschi dell'est e tedeschi dell'ovest, diventando così il simbolo di una Germania nuova e diversa: non più il Paese traumatizzato per i tanti problemi irrisolti creati dall'improvvisa caduta del muro di Berlino ma avviato a cogliere il suo primo grande successo internazionale dopo la riunificazione.
Si è quasi tentati di pensare che Jürgen Klinsmann, nel mettere insieme la squadra, abbia fatto in modo di coinvolgere il più possibile le due parti del Paese dando alla formazione un aspetto che rispecchiasse l'unità nazionale. Quasi la metà dei giocatori viene dalla Ddr, l'ex-Germania orientale. E dalla Ddr viene l'idolo del momento, Ballack, come la cancelliera Angela Merkel che non si perde una partita quando gioca la Germania, abbandonandosi a scene più da curva che da tribuna d'onore.
«Possiamo vincere», diceva all'inizio dei mondiali il presidente della Repubblica, Horst Köhler. Ora, fiutando il cambiamento di clima nell'ondata di entusiasmo generale, dice: «Dobbiamo vincere». E il Bild Zeitung, grande interprete degli umori della nazione, dopo la vittoria sull'Argentina, scrive: «I nostri calciatori ci fanno dimenticare i dispiaceri che ci danno i nostri politici». Insomma i mondiali sono diventati per i tedeschi il terreno sul quale sperano di ottenere una rinvincita dopo i tanti insuccessi subiti negli ultimi anni: la fine della Germania come locomotiva economica d'Europa, la fine dell'invidiabile stabilità governativa di un tempo, l'incapacità di superare divisioni e rancori tra tedeschi dell'est e dell'ovest, i primi delusi perché pensavano che l'unità comportasse l'arrivo automatico della ricchezza, i secondi arrabbiati perché, a sedici anni dall'unità, devono ancora mantenere i fratelli non più separati. Un quadro pieno di frustrazioni che un successo ai mondiali potrebbe non certo cambiare ma attenuare dando al Paese un'iniezione di fiducia.
In questo clima, in cui il calcio è ancora una volta depositario di aspettative che vanno ben oltre lo sport, la partita di martedì prossimo con l'Italia diventa una sfida particolarmente pericolosa per i tedeschi. Ma non perché in passato la Germania non è mai riuscita a batterci. Ma perché nell'immaginario dei tedeschi (e l'immaginario conta più della realtà) l'Italia continua ad essere il Paese dei «pelandroni e dei mammoni» (come ha scritto recentemente Der Spiegel, poi scusandosi), un Paese che i tedeschi amano ma non stimano come recita un detto secondo il quale gli italiani, invece, stimano ma non amano i tedeschi. Non a caso la Zdf, la tv pubblica, in un programma satirico, dimenticando le passate umiliazioni inflitte dalla nostra nazionale, mandò in onda una gag in cui dei finti calciatori italiani intonavano l'inno di Mameli. La musica era quella giusta ma non le parole: «guidiam la vespa, mangiam la pizza e abbiam la testa piena di gel».
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