Cronaca locale

«Il gran botto, poi ho visto un corpo volare»

«Ho ancora negli occhi quella donna che agonizza»

Paola Fucilieri

«Non voglio bestemmiare e Dio mi perdoni per quello che sto per dire. Ma Lui con me ha finito per sempre: non sarò mai più credente. Mai più... Una cosa del genere non me la doveva fare. Tre persone, ho ucciso tre persone! E in tutto questo qualcuno ci sta anche speculando sopra. Con affermazioni false, falsissime. Dio non doveva farmi questo...».
Franco Saraceno, 57 anni compiuti qualche giorno fa, padroncino da una ventina d’anni con una guida che gli stessi vigili definiscono «esemplare» (almeno fino a sabato sera) sembra un uomo finito. Se ne sta seduto in tuta da ginnastica nel salotto di casa, un appartamento al settimo piano di uno stabile alla periferia di Settimo Milanese. Con lui - svegliatosi da poco dopo una dose di sedativi che lo ha fatto dormire quasi due giorni - ci sono la moglie Rosangela, un’impiegata di 47 anni, e il figlio maggiore Manuel, 24 anni. Che lo guardano preoccupati, mentre lui, il signor Franco, si dispera, contorcendo il viso e le mani, come se non dovesse più smettere. Sabato sera, poco prima di mezzanotte, Franco Saraceno ha investito e ucciso sul colpo, mentre andava al lavoro a bordo del suo furgone Mercedes Sprinter, una coppia di anziani e una loro cognata che stavano attraversando la via Gallarate, dopo essere usciti dal ristorante «La Pergola». Li ha falciati sotto la pioggia insistente, mentre erano sulle strisce pedonali e dopo aver superato da poco un’utilitaria: Giovanni Stoppa, 74 anni, un pensionato di Canegrate aveva appena festeggiato nel locale il suo compleanno e, dopo aver salutato i parenti che s’intrattenevano ancora un po’, insieme alla moglie Bertina Poli, settantacinquenne, alla cognata di Paderno Dugnano Giovanna Ferrante, 59 anni e al nipote Francesco, trentenne, stava raggiungendo la vettura parcheggiata sull’altro lato della strada, quasi correndo. Quando Francesco, che era davanti a tutti, ha sentito un botto improvviso e la frenata stridente, si è voltato immediatamente, gli altri tre erano a terra. Già tutti morti.
Non c’era più nulla da fare...
«Ho visto solo una donna, improvvisamente, come se mi fosse schizzata davanti, saltare sopra il cofano alla mia destra; contemporaneamente, qualcosa che non ho distinto se non dopo essere sceso, come una persona, che sbatteva contro il parabrezza a sinistra, veloce come uno schizzo. Non superavo i 60 chilometri orari, stavo passando dalla seconda alla terza marcia e avevo appena sorpassato, dopo averle sfanalato, un’utilitaria. Ma non andavo forte: neanche cento metri dopo avrei dovuto svoltare in via Busto Arsizio, dove stampano il Sole 24 Ore, il quotidiano le cui copie, 5 giorni su 7, vado a prendere e porto a Genova. Potrei giurarlo: quando ho visto quella donna ho frenato bruscamente, ma il furgone è grosso... e non lo dico per discolparmi. Ricordo che c’erano una marea di auto, sembrava di essere in corso Buenos Aires, pioveva che Dio la mandava e quella donna me la sono trovata lì. Sono sceso per soccorrerla, ero in trance, capivo che era successo qualcosa di grosso, che c’entravo anch’io, ma non capivo come mai era accaduto... Dio Mio! Parlano di rigor mortis, ma quella donna, pur non essendosi irrigidita, era già bianca come solo un cadavere può esserlo, muoveva solo la bocca, la apriva e la chiudeva...».
Poi cosa ha visto?
«Mi sono voltato, ho visto gli altri due cadaveri, gente che piangeva, gridava, capannelli di persone. In particolare mi ricordo una donna china sull’uomo a terra, uno dei morti. Lo accarezzava, piangeva. E un signore di bassa statura, sui sessant’anni, che mi si avvicinava, minacciandomi con un ombrello: “Se mio fratello muore - mi diceva - ti vengo a prendere a casa”. Certe cose le vedi solo nei film, poi quando ti ci trovi di mezzo tu...».
Cosa ricorda ancora?
«Che la prima ambulanza è arrivata dopo un quarto d’ora. Mi sono messo a piangere contro un muretto, disperato. Straparlavo persino. Un poliziotto in borghese, sceso da un’auto, mi ha abbracciato, accarezzato la testa, ha detto che mi comprendeva. Poi ha preso il suo cellulare e mi ha chiesto il numero di casa: gliel’ho detto sbagliato tre volte. A casa ha risposto mio figlio di quindici anni, Andrea; il poliziotto si è fatto passare mia moglie e le ha detto dov’ero e cosa era accaduto».
Cosa la rattrista maggiormente di tutto questo?
«Che qualcuno abbia detto che ero al telefonino. Il mio telefonino era in auto, dentro uno zainetto e lì è rimasto sempre. Non l’ho mai usato, facciano pure tutti i tabulati che vogliono: ho la coscienza pulita. Ma soprattutto non posso sopportare di aver causato tanto dolore, di aver spezzato delle famiglie anche se, lo ripeto: quei tre sono schizzati davanti a me così in fretta che non li ho visti. Vorrei tanto parlare con i parenti, spiegarmi, chiedere perdono se lo accettano. Volevo andare ai funerali. Ma dopo le minacce di quell’uomo non desidero, soprattutto in questo momento di dolore, aizzare il suo odio.

Perché anch’io, in certi momenti, mi odio».

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