Storia del pensiero conservatore è il titolo di questo voluminoso saggio che Francesco Giubilei ha scritto per una casa editrice che in parte porta il suo nome (Giubilei Regnani, pagg. 606, euro 18). Il sottotitolo recita Dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni e il suo contenuto comprende pensatori di qua e di là dall'oceano, e insomma Europa occidentale e Stati Uniti, la cui matrice è più tradizionalista che liberal-liberista. Il progetto è ambizioso, ma, non essendo il sottoscritto un accademico, non interessa qui metterne in evidenza lacune o meriti, come dire storiografici e/o di interpretazione. L'interesse del libro è altrove, cioè nel parlare di conservatorismo in un Paese dove un partito conservatore non è mai esistito e dove il termine conservatore ha sempre avuto un retrogusto amaro, per non dire marcio. Il fatto poi che l'autore sia un giovane intellettuale, carica il «conservatorismo impossibile» italiano di un'ulteriore stranezza e merita dunque un'attenzione particolare.
Lo stesso Giubilei dedica del resto il capitolo finale del suo lavoro alle «cause della mancanza in Italia di un partito conservatore» ma invece di chiedere lumi alla politica insiste nel cercare le risposte negli intellettuali e finisce con il confondere la causa con l'effetto: un Paese colonizzato nel secondo dopoguerra dalle culture straniere, snazionalizzato e quindi privato della sua identità italiana, in cui il partito conservatore resta appannaggio «di alcune frange della Dc», scristianizzato dal processo di secolarizzazione, con intellettuali troppi individualisti per dare forma a un'organica cultura conservatrice, con un sentimento patrio sterilizzato dalla sua compromissione con il nazionalismo e il fascismo. Tutte cose vere, che però non vanno al cuore del problema e, soprattutto, come nell'accenno al conservatorismo democristiano, confondono conservazione con moderazione e fanno dei moderati dei conservatori e viceversa. Solo che così non è e allora bisogna fare due passi indietro: uno lungo un secolo e mezzo, l'altro che rimanda a sessant'anni fa.
Il primo ha a che fare con il processo unitario che, nella logica propria al sottotitolo del libro, fa del Risorgimento una realtà innervata dalla Rivoluzione francese, di sinistra e non di destra, progressista e non conservatrice. Per fare l'Italia è necessario fare tabula rasa di ciò che c'era prima, schematizzando al massimo, e del resto lo stesso nazionalismo nasce a sinistra e ci metterà almeno un secolo per ritrovarsi più o meno a destra
Ne consegue che nel particolare caso italiano, la dicotomia che viene a istituirsi a Unità conclusa non è fra conservatori e progressisti, ma nella divisione, propria al secondo campo, fra riformisti e progressisti. Il polo riformista, ovvero moderato, si distingue da quello rivoluzionario, ovvero progressista, non per il suo conservatorismo, ma per l'approccio diverso alla stabilità nazionale raggiunta: non traumatico, non caotico, prosaico e non retorico. Inoltre, la «questione romana», ovvero la presenza dello Stato pontificio prima come corpo estraneo al processo nazionale, poi come conquista che archivia il potere temporale del papato, trasforma ogni possibile velleità conservatrice in realtà reazionaria e ci vorrà almeno mezzo secolo, i Patti Lateranensi, per venirne a capo.
Per inciso, il fenomeno del trasformismo come realtà intrinseca del regime parlamentare italiano, racconta proprio questo: maggioranze composite e più o meno occasionali dove riformisti e radicali, moderati e progressisti si possono scambiare le parti perché partecipi dello stesso sistema di valori rivoluzionari che è alla base del neo-nato Stato italiano. Nessuno rimpiange il passato, nessuno vuole conservare il passato, nessuno vuole tornare al passato Anche il Fascismo rientra in questo schema. È un movimento dai connotati radicali e rivoluzionari che viene però percepito dai moderati italiani che lo appoggeranno, il listone nazionale del 1924, come garante della modernizzazione e della stabilità socio-economica, rispetto al rivoluzionarismo del cosiddetto «biennio rosso». In sintesi, nel primo mezzo secolo di storia unitaria, un partito conservatore non esiste perché la realtà politica ne impedisce l'esistenza. Semplicemente.
Veniamo al secondo punto. Dopo il 1945, la nuova Italia che comincia a delinearsi ripropone, sia pure con alcune varianti, lo schema ideologico-politico precedente. C'è una componente progressista e/o rivoluzionaria, il cui cardine è il Pci, c'è una componente riformista e/o moderata il cui cardine è la Democrazia Cristiana. L'una e l'altra presentano all'interno variazioni, come dire, cromatiche, nel senso che l'alto tasso ideologico comunista impedisce, almeno formalmente, il trasformismo d'antan come pratica politica, ma non la sua variante partitocratica, che poi è il trasformismo sotto mentite spoglie. A partire dagli anni Sessanta, la stagione del centro-sinistra non sarà altro che questo, il connubio moderati-progressisti cementato comunque da un'idea comune di modernizzazione del Paese. E i conservatori? Anche qui non c'è spazio né partita possibile per un partito conservatore. A chi dovrebbe rifarsi? Allo Statuto albertino sconfitto dal Fascismo? Al Fascismo, personificazione di una dittatura e di una guerra perduta? Inoltre, l'unico partito dichiaratamente nostalgico di quest'ultimo, il Movimento sociale italiano, ne difende proprio l'aspetto rivoluzionario e non conservatore, nel senso di «borghese»
Così, nel mezzo secolo abbondante di storia repubblicana, esiste un'Italia di sinistra e un'Italia di centro, un'Italia rivoluzionaria oppure progressista e un'Italia moderata oppure riformista, ma non è data la possibilità di un'Italia conservatrice, di destra, in parole povere, se non dispersa in rivoli incapaci di confluire in un unico fiume: il qualunquismo, i monarchici, il nostalgismo missino...
Il fatto è che il «conservatorismo impossibile» italiano nasce dal non capire, come già accennato all'inizio, che i moderati non si identificano nei conservatori. Nella sua Storia dell'Italia moderata (Rubbettino, pagg. 300, euro 19), Eugenio Capozzi lo spiega in modo esemplare: «Questa consistente parte stabilizzatrice e d'ordine della società italiana è a sua volta fortemente legata a una forma pre-ideologica: il mito della modernizzazione istituzionale, amministrativa, culturale del Paese, che in varia misura essa tende ad associare all'azione di soggetti come lo Stato, la burocrazia pubblica, e, paradossalmente ma non troppo, il partito politico».
Ne deriva che, per venire ai tempi nostri, i moderati del berlusconismo si definiscono riformatori e accusano di conservatorismo la sinistra, e i moderati dell'Ulivo prima e poi del Pd si definiscono tali contro l'estremismo dei loro avversari E, insomma, i conservatori sono sempre gli altri- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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