Roma

La grotta di Tiberio, il teatro dell’Odissea nell’oblio per secoli

Nica Fiori

Insieme al pittoresco borgo medievale arroccato sul colle San Magno, Sperlonga offre ai suoi visitatori ampi segni di presenze culturali stratificate nei secoli. Le bellezze naturalistiche del sito, oggi tanto apprezzate, avevano già colpito gli antichi romani, che ne fecero uno dei luoghi più esclusivi per la villeggiatura marittima. L’ospite più importante fu l’imperatore Tiberio, che nel I secolo d.C. vi costruì una sontuosa villa e trasformò in ninfeo-triclinio la più grande delle grotte affacciate sul mare. Eppure, di quell’antro ricordato dalle fonti classiche si era persa nel tempo la memoria, sia per la vaghezza dei dati topografici, sia per i mutamenti morfologici del luogo che era stato in buona parte sommerso dalla sabbia e nascosto dalla vegetazione.
Fu solo dopo il 1957 che, in seguito al rinvenimento di alcuni pezzi di marmo lavorato durante le opere per la sistemazione della via Flacca, si procedette a uno scavo regolare del sito. Sono venuti alla luce a poco a poco migliaia di frammenti di imponenti gruppi scultorei legati ai racconti omerici di Ulisse, quegli stessi miti che tanta importanza hanno ancora nelle tradizioni storiche della zona del Circeo. La frammentarietà delle sculture ha fatto pensare a una distruzione volontaria, probabilmente dovuta a un eccesso di fanatismo da parte di un gruppo di monaci insediatisi a Sperlonga a partire dal VI secolo. Dopo un lunghissimo lavoro di assemblaggio e restauro, è stato creato il museo archeologico annesso alla villa di Tiberio proprio per ospitare i celebri capolavori, tra i quali risalta la fantastica immagine della nave di Ulisse alle prese con Scilla, il mostro marino descritto da Omero come un’enorme piovra e riproposto dall’ignoto autore dell’opera come una donna con due lunghe code di pesce e dai cui fianchi escono famelici cani, che divorano l’equipaggio dell’eroe greco. La grotta era stata concepita come un «teatro dell’Odissea» con quattro gruppi principali raffiguranti, oltre l’episodio di Scilla, l’accecamento del gigante Polifemo, il ratto del Palladio e Ulisse che trascina il corpo di Achille, mentre in alto, a ornare l’apertura dell’antro, vi era Ganimede rapito dall’aquila di Zeus.
In questo modo Tiberio voleva simbolicamente sottolineare la discendenza della sua famiglia di origine, la gens Claudia, dal mondo degli eroi omerici. I Claudii, infatti, consideravano come loro progenitore Telegono, figlio di Ulisse e di Circe e, secondo una tarda leggenda, inconsapevole assassino del padre.
Davanti a quella splendida scenografia, veniva allestito un vero e proprio triclinio sotto un padiglione dai tendaggi sottilissimi per riparare i convitati dal sole o dalla brezza della sera. L’imperatore, ovviamente, aveva un posto d’onore che condivideva con pochi privilegiati. Ma, anche se molto attratto da questo luogo, a un certo punto Tiberio abbandonò Sperlonga e si ritirò a Capri.
Alla base della sua scelta ci sarebbe stato uno spiacevole incidente. Svetonio e Tacito ricordano in effetti un drammatico episodio, capitato all’imperatore nell’ottobre del 26 d.C., mentre stava banchettando nella sua grotta-ninfeo. Il crollo improvviso di alcuni massi di pietra provocò la morte di molti dei presenti e avrebbe potuto rivelarsi fatale per lo stesso Tiberio, se il prefetto del pretorio Seiano non gli avesse fatto scudo col proprio corpo.

Quando i soccorritori un’ora dopo penetrarono nella caverna, la cui entrata era ostruita, lo trovarono illeso ma profondamente colpito da quanto era avvenuto, anche perché qualche ora prima l’astrologo Trasillo gli aveva predetto che verso mezzogiorno sarebbe caduta su lui «un’ora di tenebre».

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