Gucci, l’Italia ad altezza di marciapiede

«Sto da cani» è un romanzo dall’ironia nera e universale. Realtà dura e senza trucco come in un film di Altman

Dopo il primo romanzo (Donne e topi pubblicato da Lain), che ha avuto un bel successo, è uscito di recente il secondo libro di Emiliano Gucci, Sto da cani (Lain, pagg. 251, 13.50 euro). Gucci ha trent’anni, ha fatto mille lavori: fabbrica, supermercati, disegnatore di cartoni animati, e ha anche inciso tre 45 giri con due gruppi punk. Adesso lavora in una grande libreria di Firenze, e gli capita spesso di vendere i suoi libri a chi non sa che il cassiere è lo scrittore che sta acquistando.
Sto da cani è una storia a tinte anche nere che ci porta nelle periferie di Firenze, dove i turisti non passano mai e anche il sole sembra emanare una luce diversa. Amicizia e amore s’intrecciano di continuo, passando attraverso speranze, desideri, delusioni di uomini e donne sempre alla ricerca di qualcosa. Mondi diversi che s’incontrano, mettendo in risalto distanze incolmabili. La scrittura di Gucci, già capace in Donne e topi di catturare il lettore dalle prime righe, è cresciuta. Sto da cani è un romanzo che parla di cose vere, osservate con un commovente occhio ironico. Quella sana ironia che fa sorridere a denti stretti e intanto affonda il colpo, anche quando racconta la malattia grave di uno zio ricoverato in ospedale in attesa della morte. Ma intorno a queste storie si sente anche pulsare la società di oggi, con la sua confusa combinazione di realtà differenti che ogni tanto entrano in contatto, generando effetti imprevedibili. Le storie «piccole», le piccole vite, se raccontate fino in fondo diventano universali, perché vanno a scavare nelle zone oscure che riguardano tutti, in cui ognuno trova un po’ di se stesso. Solo così ci si può emozionare, e la letteratura è soprattutto emozione. Simone Caltabellota, l'editore di Sto da cani, dice di questo libro: «Era tanto tempo che non leggevo un romanzo “corale” e allo stesso tempo tanto personale come questo. Ho riso e mi sono commosso, e ho pensato che davanti avevo una specie di “America oggi” dell’Italia, di un’umanità spiegazzata dal destino ma indistruttibile, e ho riconosciuto la scia luminosa di un amore che nasce per non morire... la cosa più bella (e che forse la dice anche lunga su come sono fatto!) è che ogni volta che leggo le ultime pagine mi viene immancabilmente da commuovermi».
Cosa ti ha spinto a scrivere questa storia a momenti così triste?
«Volevo raccontare questi personaggi, conoscevo più o meno i loro caratteri ma non dove mi avrebbero portato. Mi premeva fotografare un preciso momento della loro vita, in cui le loro storie si intrecciano, e non potevo sottrarmi dagli aspetti più crudi e duri della faccenda. La tristezza forse sta più nella loro quotidianità, nelle poche possibilità che gli offre la vita, che nei fatti precisi che ho scelto di raccontare».
Due romanzi, tutti e due opzionati per il cinema. Secondo te, come mai i produttori sono interessati alle tue storie?
«Forse interessa loro una fotografia del nostro paese inquadrato da un punto di vista molto basso, diciamo ad altezza marciapiede, senza sconti né trucchetti.

Forse piacciono i miei personaggi perché sono veri, nel senso che se anche non ci somigliano, forse somigliano a qualcuno che conosciamo. E poi le mie storie devono qualcosa al ritmo e alla narrazione cinematografica... probabilmente hanno un po’ voglia di “tornare a casa”».

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