Guerra fredda via web: Google lascia la Cina

Una morte annunciata in nome dei diritti umani. Un bluff per ritrattare i termini di una collaborazione. L’incipit di una guerra fredda 2.0 tra Washington e Pechino, la cui posta in gioco va oltre la semplice sfera di influenza politica. Questo e altro nel rincorrersi di voci, indiscrezioni e mezze notizie intorno al destino di Google in Cina. Dossier, che ogni giorno di più si riconferma cartina al torna sole della nuova era di tensione nei rapporti tra le due super potenze mondiali.
Secondo indiscrezioni del China Business News, BigG chiuderà il 10 aprile le sue operazioni nell’ex Celeste Impero dopo le polemiche tra il governo cinese e il gigante di Mountain View su temi caldissimi quali la censura online e i casi di pirateria contro gli indirizzi di posta gmail degli attivisti per i diritti umani. Il giornale cita il funzionario di un’agenzia che raccoglie pubblicità sul web, partner del colosso americano. Non è dato sapere se il colosso della ricerca online chiuderà solo il sito web in cinese o anche altre iniziative nel Paese, come le attività di telefonia mobile e di browser, nonché alcuni servizi web come Google Answers e le ricerche musicali. L’annuncio ufficiale dovrebbe avvenire lunedì prossimo, ma la portavoce della compagnia in Cina, Marsha Wang, per ora non ha voluto commentare la notizia, affermando che «non ci sono sviluppi» sulla situazione. D’altro canto nulla di strano sulla tempistica: la decisione coinciderebbe anche con la scadenza del 31 marzo in cui i provider stranieri dovranno rinnovare le licenze per operare nel Paese.
I colloqui tra Mountain View e Pechino per definire i termini di permanenza di Google sul mercato cinese - dopo che per protesta contro i cyber attacchi, il portale ha tolto i filtri di censura - finora hanno partorito più voci che soluzioni reali. Già la scorsa settimana, citando una fonte anonima, il Financial Times aveva scritto che Google avrebbe abbandonato «al 99,9%» la Cina. L’impressione è che la serie di indiscrezioni trapelate sui media negli ultimi tre mesi, rientri in un gioco al rialzo in cui si confrontano anche altri concorrenti più o meno evidenti.
Prima di tutto i competitor di Google. Dell’eventuale uscita di BigG dalla Cina potrebbe approfittare la Microsoft, del «filantropo» Bill Gates e il suo Bing: il motore di ricerca antagonista di Google, riportava pochi giorni fa il Wall Street Journal, ha già assunto tre persone impiegate da Google in Cina. Da quando Mountain View e Pechino sono impegnate nel loro braccio di ferro, i vertici di Redmond hanno più volte ribadito la loro intenzione di restare in Cina «rispettando le leggi vigenti». Se chiudesse Google.cn, parte del traffico esistente potrebbe comunque essere dirottato verso i server fuori dai confini cinesi, ma è molto probabile che Pechino blocchi tutti gli accessi. Poi c’è Baidu, leader della ricerca online made in China, e a cui si rivolge il 58% dei quasi 400 milioni di internauti del Paese contro il 36% che sceglie Google. In borsa i guadagni sono già evidenti, con Baidu che continua a rubare terreno al rivale a stelle e strisce.
Le fughe di notizie, comunque, potrebbero essere anche un modo per innervosire Pechino e spingerla a un compromesso vantaggioso. Sarebbero numerose le compagnie e dipendenti cinesi che risentirebbero di una dipartita del colosso americano. Pochi giorni fa, in una lettera inviata al top executive John Liu, ma di cui la stessa Google sta ancora controllando la veridicità, 27 partner pubblicitari di Google esprimevano preoccupazioni su pagamenti che rimarrebbero in sospeso, nel caso di una chiusura definitiva dei battenti.
Quello che pare chiaro è che sulla libertà del web in Cina si stia scrivendo il nuovo capitolo dello scontro Washington-Pechino. Difficile pensare che la decisione di Google di lasciare un mercato succulento come quello cinese non abbia l’avallo dell’amministrazione Obama. Che sul fronte orientale, negli ultimi mesi, sembra aver cambiato rotta: il dossier diritti umani finora era passato in secondo piano per non ostacolare le imprese americane che producono in Cina e non indispettire i cinesi sottoscrittori di ingenti quantità di buoni del Tesoro Usa.


Ora, invece, la Casa Bianca annuncia una nuova politica tecnologica per aiutare i cittadini di altri Paesi ad accedere al web senza censure, vende armi a Taiwan, riceve il Dalai Lama e alza i toni sulla polemica legata all’apprezzamento dello yuan che Pechino rifiuta da anni. Ah, il fondatore di Google, Eric Schmidt, è grande amico di Barack Obama, che ha finanziato nelle scorse presidenziali.

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