Guerra o no? Ecco che cosa farà Israele

È probabile che Ahmadinejad, vincitore delle elezioni in Iran darà la colpa dei disordini che ne sono seguiti a Israele. Il che non mancherebbe di logica cospiratoria se l’“onda verde” dei cosiddetti moderati di Moussavi, non ricordasse l’onda arancione anti russa delle elezioni in Ucraina, e quelle colorate del Libano, e della Georgia. I disordini si rivelano, comunque, un beneficio inaspettato per Israele e hanno probabilmente fatto riflettere Netanyahu sulla componente cieca della politica che Machiavelli chiama “fortuna”.
Non occorreva essere profeti per immaginare quello che il premier israeliano avrebbe detto ieri sera in risposta al discorso del Cairo di Obama. Intervento molto atteso anche per la scelta del luogo scelto per pronunciarlo: l’università religiosa di Bar Ilan, nei pressi di Tel Aviv, centro accademico di destra dove aveva studiato l’assassino di Itzhak Rabin.
Netanyahu non poteva dire un no secco a Obama. Sarebbe stato invitare uno scontro fra un personaggio all’apice della popolarità internazionale e un altro al suo nadir, un cozzo fra un recipiente di ferro e uno di ceramica, che lo Stato di Israele non poteva permettersi. Netanyahu lo aveva spiegato nei giorni passati ai capi dei partiti che formano la sua ibrida coalizione di destra. C’è da credere che anche i più duri fra loro hanno compreso che Israele non poteva alienarsi l’unico alleato che aveva avuto il coraggio di dire al Cairo che il legame fra America e Israele era «indistruttibile» e che il piano di pace della Lega araba era un inizio non una fine di negoziato con Israele.
D’altra parte Netanyahu non poteva accettare la richiesta americana di blocco della “crescita naturale” della popolazione interna degli insediamenti ebraici esistenti in Cisgiordania, senza provocare una crisi di governo che avrebbe prima o poi portato al potere l’opposizione di centro sinistra guidata dalla signora Livni (con l’appoggio del presidente Peres). Ha dovuto accettare l’idea dei due Stati mantenendosi vago, ma condizionando lo Stato palestinese ad una demilitarizzazione completa (e probabilmente internazionalmente garantita anche con l’appoggio della Giordania). Qualche cosa ispirato allo statuto di Andorra. E che, come prima reazione, la Casa Bianca ha definito «un importante passo avanti».
Sulla questione degli insediamenti, quelli illegali anche dal punto di vista di Gerusalemme, verranno eliminati assieme a molti posti di blocco per favorire lo sviluppo economico della Cisgiordania. Si tratta di poche decine di persone, disperse su una larga scala, la cui evizione da abitazioni per lo più mobili non creerà un trauma nazionale come per Gaza. Evacuazione che ha dimostrato l’uso offensivo, non costruttivo, che i palestinesi hanno fatto di questo territorio. Sulla questione della crescita demografica all’interno degli insediamenti considerati “legali” da Israele (Netanyahu ha escluso il congelamento di queste colonie: «Bisogna permettere agli abitanti di vivere normalmente») si cercheranno soluzioni tecniche. I recenti incontri fra il senatore Mitchel, inviato speciale di Obama per il Medio Oriente, e la dirigenza israeliana, secondo la stampa israeliana, si sarebbero trasformati da negoziati politici a discussioni su “diritti catastali”.
Su due punti il premier israeliano è stato categorico: Gerusalemme («deve rimanere la capitale indivisibile di Israele») e i profughi palestinesi («il problema va risolto fuori dal territorio di Israele»). E su questo si sono appuntate le critiche dell’Anp di Abu Mazen, che ha accusato Netanyahu di «silurare» gli sforzi di pace.
Due cose sembrano certe dopo questo discorso. La prima è che la situazione di tensione interna post elettorale in Iran rende impossibile un’iniziativa militare israeliana contro il regime di Teheran. Non servirebbe se non a unire il Paese attorno al suo presidente. Secondo, il principale problema di Obama nel Medio Oriente è l’Iran, non gli insediamenti israeliani. È una sfida lanciata non solo all’America dalla Corea del Nord e dall’Iran. Due potenze regionali chiedono col ricatto nucleare un riconoscimento di supremazia regionale che la società internazionale non è disposta a dar loro. In questa situazione gli Stati Uniti rivelano la loro debolezza e il loro bisogno di cooperazione con la Cina e con la Russia. Una collaborazione che Mosca non sembra disposta a concedere se non a caro prezzo, come spiegava ieri su questa pagine Marcello Foa. Nel frattempo il ministro degli Esteri israeliano, Lieberman ha fatto quattro visite a Mosca dove ha ottenuto l’impegno russo a opporsi all’uso del nucleare da parte dell’Iran per «scopi non civili».

Lieberman ha aperto un’ambasciata israeliana a Minsk e ha allargato la presenza israeliana nelle repubbliche asiatiche ex sovietiche. L’America non può ignorarlo anche se una volta di più la realtà sembra superare la fantasia.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica