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«La guerra al terrorismo non si ferma ma gli Usa devono cambiare tattica»

«È vero: Clinton ha sbagliato e Bush non ha capito la natura della crisi. Ora è necessario riconquistare autorità morale»

Marcello Foa

da Milano

È stato per anni il leader dei democratici al Senato Usa, ancora oggi è uno delle personalità più influenti del suo partito. Stimato dai repubblicani, George Mitchell resta una figura di riferimento in un’America che non ha ancora assorbito lo choc dell’11 settembre. Lunedì ha presenziato alle cerimonie di commemorazione degli attentati, ieri era a Milano, nelle vesti di presidente dello studio legale Dla Piper, dove ha incontrato un gruppo ristretto di giornalisti italiani. Di terrorismo se ne intende: nell’Irlanda del Nord fu lui ad avviare, per conto del governo di Londra, il processo di pace con i separatisti dell’Ira.
Senatore Mitchell, in queste ore Clinton è accusato di aver commesso molti errori nella lotta ad Al Qaida prima dell’11 settembre. Lei condivide queste critiche?
«I giudizi in retrospettiva sono sempre delicati, però devo ammettere che molte delle decisioni prese negli anni Novanta erano perlomeno inadeguate. Si poteva fare di più e di meglio. Ma anche Bush ha sbagliato».
Che cosa rimprovera alla Casa Bianca?
«Di non aver capito la natura della crisi. Il terrorismo non è un nemico, ma una tattica, e non è stato inventato l’11 settembre, benché quel giorno sia stato particolarmente virulento. È sbagliato accomunare tutti i gruppi eversivi, come un monolite. Alcuni hanno un’identità politica e chiari obiettivi, altri no. Con i primi puoi trovare soluzioni, con altri no. Ed è il caso di Al Qaida».
Dunque come si contrasta Bin Laden?
«Rinsaldando l’alleanza con gli alleati più fidati, come quelli della Nato, rendendo molto più efficiente l’antiterrorismo, aumentando i controlli economici e finanziari. La guerra non va combattuta come se dovessimo sconfiggere un altro Stato, ma moltiplicando le operazioni mirate. E questo non è stato fatto».
C’è chi dice: l’America sta perdendo la leadership morale nel mondo. Da grande americano, quale lei è, come reagisce?
«Oggi assistiamo a un paradosso: gli Usa non sono mai stati tanto potenti, eppure mai tanto impopolari. Il potere è essenziale, ma non è la risposta a tutto. Noi abbiamo sempre creduto agli ideali e ai principi sanciti nella Costituzione; siamo sempre stati il Paese che garantisce la parità dei diritti, opportunità per tutti, la salvaguardia delle libertà individuali. Questa era la nostra forza fino al 2001: deve tornare a esserlo. La nostra autorità morale deve eguagliare quella militare».
Qual è secondo lei la mossa più azzeccata di Bush?
«Il modo responsabile e controllato con cui ha reagito all’11 settembre, pianificando senza emotività l’intervento in Afghanistan».
L’errore più grave?
«Non aver concluso la missione a Kabul con la cattura di Bin Laden, dirottando le risorse su una guerra, in Irak, che non era necessaria».
Ora in cima all’agenda c’è l’Iran. E c’è chi suggerisce l’avvio di un dialogo...
«Io non me la sento di condividere l’idea di chi sostiene che Bush debba aprire trattative dirette, però ritengo che occorra mantenere aperti i canali di comunicazione. Poco importa la forma, occorre la sostanza.

Credo che sia ancora possibile risolvere la crisi senza ricorrere alla forza».

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