Ecco qual è il posto più sicuro in caso di attacco nucleare della Russia

Più che cercare un luogo perfetto, dicono gli esperti, la vera difesa risiede nella resilienza: comunità autonome, fonti energetiche indipendenti, reti locali di mutuo soccorso

Ecco qual è il posto più sicuro in caso di attacco nucleare della Russia
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Esiste davvero un luogo sicuro in caso di attacco nucleare? La questione, oggi, si carica di un’urgenza nuova, in un mondo in cui la deterrenza sembra cedere il passo a una fragile competizione strategica e la minaccia atomica torna a essere un argomento di politica reale, non più solo di fantascienza.

La giornalista investigativa Annie Jacobsen, citata da Open per esempio, nel suo libro Nuclear War: A Scenario (2024) ha cercato un luogo “più sicuro” in caso di attacco nucleare, ipotizzando che Australia e Nuova Zelanda possano garantire la sopravvivenza nel worst case scenario. Ma come sottolineano numerosi esperti, non esiste una città inviolabile, ma che alcuni fattori – distanza dagli obiettivi militari, conformazione del terreno, infrastrutture sotterranee – possono ridurre i rischi immediati di un’esplosione o della successiva ricaduta radioattiva. Tuttavia, queste considerazioni assumono significato solo se calate in un quadro più ampio, che includa la preparazione civile, la resilienza delle infrastrutture e la capacità dei governi di gestire scenari di emergenza complessi.

Le linee guida ufficiali, come quelle della Protezione Civile italiana e della Commissione Internazionale per la Protezione Radiologica, insistono sul principio del rifugio: chiudersi in edifici solidi, evitare l’esposizione diretta e attendere le istruzioni delle autorità. Ma anche la protezione “perfetta” resta un mito. Gli esperti sottolineano che la maggior parte dei rifugi privati, tanto pubblicizzati in tempi di paura, non garantisce un’effettiva schermatura dalle radiazioni né un’autonomia sufficiente a sopravvivere per giorni o settimane in isolamento. In molti casi, l’illusione del bunker si infrange contro la realtà fisica delle esplosioni nucleari moderne, che rilasciano energia e calore ben oltre le soglie per cui queste strutture furono progettate decenni fa.

In Europa, la Svizzera rimane un caso particolare. Lì, la rete di rifugi antiatomici è capillare e normativamente obbligatoria sin dagli anni Sessanta. Ogni cittadino dispone teoricamente di un posto protetto, e le autorità conducono periodicamente esercitazioni per garantire la funzionalità del sistema. Anche paesi come la Svezia e la Finlandia hanno riattivato programmi di protezione civile sospesi dopo la fine della Guerra Fredda, prevedendo rifugi, piani di evacuazione e comunicazioni di emergenza. Ma persino in questi contesti la sicurezza è relativa: le moderne testate termonucleari, unite alla possibilità di detonazioni multiple o accidentali, rendono imprevedibili gli effetti a lungo raggio e il fallout radioattivo potrebbe contaminare vaste aree del pianeta in pochi giorni.

Gli studiosi di strategia internazionale concordano sul fatto che il rischio reale non sia tanto quello dell’annientamento totale, quanto del collasso delle strutture di sopravvivenza. Anche chi non subisse l’esplosione diretta dovrebbe affrontare settimane senza elettricità, comunicazioni o approvvigionamenti alimentari, in un contesto ambientale alterato da radiazioni e polveri tossiche. Per questo, più che cercare un rifugio perfetto, la vera difesa risiede nella resilienza: comunità autonome, fonti energetiche indipendenti, reti locali di mutuo soccorso e una preparazione psicologica e logistica che permetta di reagire all’imprevisto.

Negli ultimi anni, think tank come il Bulletin of the Atomic Scientists o lo Stockholm International Peace Research Institute hanno pubblicato studi che mostrano come nessuna regione del mondo possa dirsi immune agli effetti collaterali di un conflitto nucleare, anche limitato. I venti atmosferici trasportano polveri radioattive attraverso i continenti, le temperature globali potrebbero diminuire di diversi gradi per l’oscuramento del sole e le catene alimentari collasserebbero in poche settimane. Perfino regioni remote come la Nuova Zelanda, spesso citata come rifugio ideale, subirebbero conseguenze indirette ma devastanti.

La verità, scomoda e irriducibile, è che la sicurezza assoluta non esiste. Ci sono luoghi relativamente più protetti – zone montuose, lontane da capitali e centri industriali, con accesso a risorse naturali e infrastrutture sotterranee – ma nessuno che possa garantire salvezza.

Il vero margine di sopravvivenza dipende meno dalla geografia che dalla capacità collettiva di prevenire, cooperare e mantenere la pace.

Cercare un “posto sicuro” in un mondo armato di testate nucleari è, in fondo, una forma di disperata lucidità: il tentativo di dare razionalità a una minaccia che sfugge al controllo umano.

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