
Il primo capitolo del piano del presidente Donald Trump per la ricostruzione e la stabilizzazione di Gaza è entrato formalmente in vigore, con il ritiro parziale delle forze israeliane e l’arrivo dei primi contingenti di supporto. Ma mentre Washington batte il tempo politico — inviando sul terreno inviati e personale militare per coordinare la transizione — i problemi di fondo che mettono a rischio la fase successiva del piano rimangono irrisolti e concreti.
Sulla linea del fronte: visite e prime forze
Il mediatore statunitense Steve Witkoff ha effettuato una visita sul terreno accompagnato dal comandante del CENTCOM, l’ammiraglio Brad Cooper, per verificare il ritiro iniziale delle unità israeliane e avviare il coordinamento logistico. Contestualmente sono arrivati in Israele — secondo le ricostruzioni ufficiali e fonti militari — circa 200 militari statunitensi dispiegati nella base aerea di Hatzor, destinati a fungere da centro di comando e coordinamento: gli Stati Uniti hanno precisato che non schiereranno truppe nella Striscia, ma agiranno dalla sponda israeliana per supportare l’attivazione della cosiddetta International Stabilisation Force (ISF).
Le fazioni palestinesi: stop alla "tutela esterna" e al disarmo totale
A frenare la marcia delle diplomazie è arrivata una risposta netta dalle formazioni palestinesi. In un comunicato congiunto Hamas, Jihad islamica e il Fronte popolare hanno respinto qualsiasi tutela esterna su Gaza, affermando che il futuro della Striscia deve restare in ambito palestinese. Un alto esponente di Hamas, Basem Naim, ha poi ribadito che il movimento non intende accettare un disarmo totale senza garanzie politiche e di sicurezza specifiche. Queste prese di posizione complicano la roadmap prevista per la seconda fase — smilitarizzazione e passaggio di sovranità amministrativa — e pongono il problema di chi e come potrà garantire ordine e riscossione delle armi.
L’ISF e i suoi limiti: mandato, composizione e credibilità
La forza internazionale di stabilizzazione — cuore operativo del piano Trump — resta ancora a molti aspetti formale e indefinita: non c’è pieno accordo sulla dimensione del mandato, sui contributori e sul ruolo esatto che dovrà svolgere sul terreno. Paesi arabi (Qatar, Egitto, Turchia, Emirati) vengono indicati come protagonisti probabili nella gestione diretta, con quote annunciate da Stati musulmani come Indonesia e Marocco; l’Europa è più prudente ma Parigi e Roma hanno espresso disponibilità a contribuire con personale o assetti che vadano dalla partecipazione sotto bandiera ISF a quadri coordinati dalle Nazioni Unite. Analisti e diplomatici avvertono che l’assenza di dettagli operativi fondamentali rende fragile l’intero progetto: senza regole chiare e garanzie sul terreno, il passo verso la smilitarizzazione e la normalizzazione rischia di incepparsi.
Chi controllerà Gaza? Il board e le resistenze locali
Il piano prevede anche un organismo sovranazionale — in alcuni documenti descritto come un board o Board of Peace sotto la presidenza (politica) di Trump e con figure internazionali prospettate tra i membri — destinato a sovrintendere l’amministrazione della Striscia e la ricostruzione. L’ipotesi di personalità occidentali di primo piano (tra cui è circolato il nome di Tony Blair) ha suscitato reazioni ostili tra i palestinesi e tra parte dell’opinione pubblica regionale, che vedono in questi schemi il rischio di un controllo esterno privo di legittimazione locale. Per molti attori palestinesi la soluzione è che la gestione resti in mano a funzionari e organismi palestinesi, con l’assistenza internazionale limitata alla ricostruzione e alla supervisione.
Armi, polizia e tunnel: i problemi pratici
Sul piano pratico, Hamas accetta solo la consegna di una parte del proprio arsenale e chiede che armi e personale siano integrati in strutture palestinesi — non consegnati a forze straniere — oltre a rivendicare un ruolo nella sicurezza locale (polizia). Intanto, fonti riportano che agenti legati a Hamas sono tornati in alcune aree della Striscia (mobilitazioni, nomine amministrative locali): segnali che mostrano come il movimento intenda mantenere una presenza politica e sociale anche fuori dalla forma militare. Resta poi aperta la questione dei tunnel e delle infrastrutture clandestine: se saranno cercati, distrutti o sequestrati, e con quali modalità, è materia che richiederà decisioni operative delicate.
Il rischio di discontinuità e la minaccia di una nuova offensiva
Il rispetto dei patti è la condizione indispensabile perché il piano proceda: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha già avvertito che violazioni serie potrebbero riaprire la strada a una ripresa delle operazioni militari. Sul terreno, l’IDF mantiene una presenza significativa in molte aree della Striscia — secondo fonti israeliane, ancora circa la metà del territorio resta sotto il controllo operativo delle forze — il che significa che la situazione è ancora estremamente fluida e che basta un incidente o una serie di violazioni per rompere l’equilibrio precario raggiunto.
La diplomazia cerca di comprare tempo: è convocato un vertice multilaterale al Cairo / Sharm El-Sheikh per lunedì (summit che vedrà la partecipazione di numerosi leader mondiali, incluso il presidente Trump e il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi) per provare a tradurre le intese verbali in impegni concreti su mandato ISF, liberazione degli ostaggi, e piano di ricostruzione.
Sarà un banco di prova politico cruciale: senza impegni concreti e verificabili da parte degli Stati coinvolti, la seconda fase (ritiro israeliano completo e devoluzione del controllo amministrativo) rischia di rimanere sulla carta.