
C’è un momento in cui la retorica si spezza e la propaganda mostra la sua nudità. Non servono slogan né urla: bastano i fatti, documentati, verificati, implacabili. È proprio la cronaca, sostenuta da rapporti ufficiali, inchieste giornalistiche e testimonianze dirette, a smontare la favola della cosiddetta “resistenza romantica” che anima cortei e piazze.
Il 7 ottobre non è stata una battaglia: è stato un massacro. Le Nazioni Unite, la Croce Rossa e la stampa internazionale hanno descritto stupri, rapimenti, famiglie arse vive. È questo il punto di partenza che da solo basterebbe a incrinare la narrativa epica che certi ambienti continuano a ripetere.
Poi c’è la questione degli aiuti economici. Miliardi di dollari che avrebbero potuto trasformare Gaza in un polo di crescita, e che invece sono stati assorbiti da cemento e razzi, come hanno riportato la Banca Mondiale e documenti europei. Lo stesso paradosso emerge nelle infrastrutture: tunnel militari scoperti persino sotto scuole, come ammesso dall’UNRWA, a dimostrazione di come la popolazione sia stata usata come scudo.
Il confronto con altre tragedie mondiali è impietoso. Sudan, Yemen, Congo: milioni di morti, carestie enormi, ma poca attenzione internazionale. L’indignazione selettiva è un dato di fatto. Eppure, quando si parla di Gaza, spesso si dimenticano altri dettagli fondamentali: il valico di Rafah è chiuso dall’Egitto, non da Israele, eppure criticare i Paesi arabi sembra non convenire a chi indossa la kefiah.
Non mancano i drammi interni: esecuzioni sommarie di palestinesi accusati di collaborazionismo, denunciate da Amnesty e Human Rights Watch; medici minacciati per aver denunciato furti di medicinali; donne costrette a matrimoni forzati e ridotte a libertà minime, come hanno rilevato UN Women e HRW. Nel frattempo, i leader di Hamas vivono in ville di lusso in Qatar, mentre la popolazione paga il prezzo più alto.
La contraddizione sociale è evidente: bazar dove si vendono iPhone a 5.000 dollari e ristoranti pieni, accanto a quartieri devastati e a voci di carestia. Una fotografia che rompe la narrazione di uniformità della sofferenza. Anche la realtà regionale conferma questa ipocrisia: Egitto e Giordania hanno detto no all’ingresso dei profughi, senza che si levasse alcuna protesta.
Infine, la disinformazione: immagini rubate da Siria, Iraq e Yemen riciclate come “prove” di bombardamenti a Gaza. Reuters, AFP e BBC hanno smentito più volte, ma la propaganda corre più veloce della verifica.
Ostaggi ancora detenuti, famiglie palestinesi che vivevano grazie al lavoro in Israele, malattie genetiche dovute a fattori interni: tutti elementi che mostrano una realtà molto diversa dalla sceneggiata di chi dipinge unicamente vittime e carnefici in bianco e nero.
Siamo vicini al popolo palestinese, soffriamo nel vedere le atrocità di questa guerra, ma non possiamo dimenticare da chi è partita. E non possiamo dimenticare quelle immagini atroci in cui i terroristi di Hamas hanno picchiato, ucciso, violentato e rapito donne, uomini, bambini e militari. È stato proprio in quel momento che Hamas ha dichiarato guerra vera, dopo anni di minacce di voler distruggere Israele, di volerlo radere al suolo. Sovvertire la realtà, raccontare menzogne, spacciare per vere cose false significa tradire le vittime e ingannare chi cerca la verità. Punto.
E qui si arriva a un altro nodo cruciale. Mohammad Hannoun, leader dell’Associazione Palestinesi in Italia, è stato inserito dal Dipartimento del Tesoro statunitense nella blacklist, con l’accusa di aver sostenuto finanziariamente Hamas tramite l’Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese. Si tratta di accuse ufficiali che Hannoun ha sempre respinto, dichiarando di non essere membro del movimento, pur ammettendo di simpatizzare con esso. In un’assemblea, però, si è spinto oltre: ha definito Il Tempo “nazifascista”, con parole offensive che molti hanno interpretato come un incitamento contro le inchieste che da mesi il quotidiano sta portando avanti su Hamas e sugli intrecci con il terrorismo. Un episodio facilmente verificabile, perché di quell’intervento esiste anche un video in cui si sentono chiaramente le sue espressioni contro Il Tempo, contro le inchieste che sta portando avanti con i suoi bravissimi giornalisti, con il suo direttore Tommaso Cerno e con la giornalista Giulia Sorrentino, che da mesi porta avanti queste delicate inchieste, e contro la proprietà editoriale. A tutti loro va la nostra più sentita vicinanza e l’invito a non fermarsi, a continuare sulla strada della verità.
Questa è una vergogna che non può essere tollerata. Perché una cosa è la libertà di opinione, sacrosanta in ogni democrazia, altra cosa è l’incitamento all’odio e l’attacco diretto alla stampa libera. Un uomo sanzionato dagli Stati Uniti, accusato di legami con Hamas (accusa che lui nega), non può arrivare nel nostro Paese e permettersi di lanciare offese e parole percepite come minacciose verso un giornale e chi vi lavora.
Le minacce e le offese di Hannoun non ci spaventano e non fermeranno la libertà di stampa, che è un valore della nostra democrazia e di tutte le democrazie presenti nel mondo, a differenza di chi vuole imporre autoritarismo e un popolo probabilmente sottomesso. Hannoun, non ci fai paura.