I sorrisi e i "grazie". La lezione europea ha messo in scena un altro Volodymyr

I sette leader europei non possono permettere un altro ko, che peserebbe su quell'accordo "complessivo" che lo stesso Trump ha invocato in Alaska

I sorrisi e i "grazie". La lezione europea ha messo in scena un altro Volodymyr
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L'imperativo dell'Ue era evitare un secondo 28 febbraio. Ovvero «formare» Volodymyr Zelensky in vista dell'incontro, forse maggiormente decisivo in questi 1272 giorni di guerra, perché vada meglio rispetto all'ultima sua apparizione alla Casa Bianca. Questo l'obiettivo dei leader europei atterrati a Washington con gli occhi rivolti a sei mesi fa, quando nello Studio Ovale andò in scena il festival degli errori. La lunga giornata del presidente ucraino inizia con un vis a vis con l'inviato Usa Kellogg, poi a lezione dai leader europei per preparare il faccia a faccia con Trump, accompagnato dal vicepresidente JD Vance, dal segretario di Stato Marco Rubio, dal capo dello staff Susie Wiles, dagli inviati special Steve Witkoff e Keith Kellogg. Zelensky invece è spalleggiato da Andriy Yermak, il suo capo di stato maggiore e da Rustem Umerov, ex ministro della Difesa e ora capo del Consiglio per la sicurezza e la difesa nazionale. Il tema della postura di Zelensky è centrale: a questo hanno puntato i leader europei per indirizzarlo, partendo da tre consigli per evitare di bissare lo scontro di febbraio. Un approccio, anche fisico, più diplomatico; gesti del corpo dialoganti; capacità di mantenere la barra dritta sull'obiettivo finale, senza perdere la lucidità in caso di incomprensioni o di proposte non condivise. Senza dubbio una missione complessa ma, proprio per la densità politica dell'incontro, il tutto va preparato nei dettagli, compresi gli imprevisti o le possibili provocazioni. Zelensky rivela: «Abbiamo coordinato le nostre posizioni in vista dell'incontro con il presidente Trump».

Giorgia Meloni, Emmanuel Macron, Keir Starmer, Friedrich Merz, Alexander Stubb, Mark Rutte e Ursula von der Leyen dopo essersi attovagliati all'ambasciata ucraina di Washington per svolgere una riunione preparatoria (evento che non ha precedenti per tempistica e numero dei partecipanti), si sono concentrati su Zelensky. È quello il tasto più vicino che possono spingere, è quella direzione di marcia bellica che va fermata, è in quel filo da tenere ancora ben stretto che si può trovare un punto di equilibrio. Già, l'equilibrio. Quello che mancò il 28 febbraio alla Casa Bianca, quando Zelensky non riuscì a rintuzzare le sortite di JD Vance, lesto a infilarsi nelle incertezze dell'ucraino, il quale cadde nella trappola mediatica, uscendo da quell'incontro non con la consapevolezza che il teatro mediatico era stato servito su un piatto d'argento. Questa volta però le premesse sembrano diverse, dal momento che è stato lo stesso Vance prima del vertice Trump-Putin di Anchorage ad aprire all'incontro trilaterale, con «Trump, Putin e Zelensky che potrebbero sedersi e discutere la fine del conflitto».

I sette leader europei non possono permettere un altro ko, che peserebbe su quell'accordo «complessivo» che lo stesso Trump ha invocato in Alaska, quando ha sottolineato che «ci sarà un accordo quando ci sarà un accordo», alludendo ad altri elementi della partita, tra cui possono essere verosimilmente ricomprese le terre rare, gli accessi al corridoio del grano, il dossier energetico e della ricostruzione. «La Russia può essere costretta alla pace solo con la forza, e il Presidente Trump ha questa forza», ha scritto su X Zelensky dopo l'incontro con l'inviato Usa Keith Kellogg. «Gli attacchi russi alle nostre città sono continuati e tra le vittime ci sono due bambini». Ecco il nodo: riuscire a tessere una tela in quei minuti nello Studio Ovale che sia al contempo realistica e risolutiva.

Un'impresa titanica ma, proprio per

questa ragione, che necessita di un lavorìo preparatorio, efficace e sotterraneo. Perché, come ripeteva Henry Ford, «le due cose più importanti non compaiono nel bilancio di un'impresa: la sua reputazione e i suoi uomini».

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