L'uranio al 60% e il dossier dell'Aiea: cosa c'è dietro l'atomica dell'Iran

Le opacità tecniche e diplomatiche dell'Iran in un report del 12 giugno da parte dell'AIEA sarebbero "il casus belli" che avrebbe scatenato gli attacchi dell'ultima settimana

L'uranio al 60% e il dossier dell'Aiea: cosa c'è dietro l'atomica dell'Iran

In questa inquietante attesa di Godot sul fronte iraniano, a scatenare una nuova fiammata è un rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) pubblicato il 12 giugno, in cui si accusa Teheran di “mancata trasparenza”.

Il report dell'AIEA

Teheran, infatti, viene accusata di non collaborare alle ispezioni previste. Uno dei punti preliminari del rapporto, infatti, recita "esprimendo rammarico perchè nonostante le suddette risoluzioni del Consiglio e le numerose opportunità offerte dal Direttore Generale dal 2019, l'Iran non abbia fornito la cooperazione richiesta dall'Accordo di Salvaguardia, ostacolando le attività di verifica dell'Agenzia, la sanificazione dei siti e omettendo ripetutamente di fornire all'Agenzia spiegazioni tecnicamente credibili sulla presenza di particelle di uranio di origine antropica in diverse località non dichiarate in Iran o informazioni sull'attuale ubicazione di materiale nucleare e/o di apparecchiature contaminate". All’indomani della pubblicazione, Israele ha lanciato l’attacco militare. Il salto narrativo — opacità tecnica e diplomatica come giustificazione per la guerra preventiva — è stato immediato.

Tre giorni più tardi, il direttore dell’AIEA, Rafael Grossi, puntualizza: “Non abbiamo prove che l’Iran stia attivamente costruendo un ordigno nucleare”. Ma il danno è fatto. L’opinione pubblica è già stata indirizzata. E le cancellerie occidentali, invece di invocare prudenza, hanno serrato i ranghi. Il presidente Trump, sfidando il proprio apparato di intelligence, liquida con un “non mi interessa” il rapporto del marzo precedente secondo cui l’Iran sarebbe ancora a tre anni dalla bomba. I leader del G7, in coro, si allineano: “Teheran non deve arrivare all’arma nucleare”.

Le mosse di Netanyahu

Da anni, per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, la minaccia atomica iraniana è al tempo stesso un incubo strategico e una costante leva politica. In pubblico, ha scandito con regolarità le tappe dell’imminente armamento di Teheran: a tre mesi, sei mesi, un anno di distanza. Ma la bomba non è mai arrivata. Eppure, oggi, è bastato un documento tecnico — non un rapporto d’intelligence, né un’ispezione con prove concrete — per innescare l’azione militare.

Dopo aver disarticolato negli ultimi mesi le reti iraniane in Siria e Libano, Netanyahu ha percepito una finestra aperta sulla storia. Forte del silenzio internazionale e dell’appoggio tacito di Washington (e forse anche del disordine che ivi regna), ha dato il via a un’operazione che rincorre un obiettivo strategico perseguito da decenni: impedire all’Iran di oltrepassare, anche solo teoricamente, la linea rossa del nucleare.
L’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), siglato nel 2015 e abbandonato unilateralmente da Trump nel 2018, era stato costruito proprio per evitare scenari del genere: trasparenza sulle attività nucleari in cambio di revoca delle sanzioni. Fino al ritiro americano, Teheran era stata ai patti, almeno da ciò che sappiamo. Dopo, ha progressivamente ripreso l’arricchimento dell’uranio, oggi arrivato al 60% con circa 400 chili stoccati.
Lo scorso anno, poi, erano ripresi i negoziati tra Washington e Teheran. Ma sotto i raid israeliani, l’Iran ha interrotto ogni contatto. La diplomazia si è fermata, mentre le logiche militari sono tornate a dominare la scena. E come già successo in passato, le differenze tra dati verificabili e percezioni politiche si sono dissolte.

La posizione dell'Iran

L’Iran, dunque, in che posizione si trova desso? Formalmente, resta ancora un membro sottoposto ai controlli dell’AIEA. Israele no: non ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare, non consente ispezioni e, secondo stime indipendenti, dispone di un arsenale di oltre cento testate. A questo si aggiungerebbe, secondo numerosi analisti, la fatwa di Ali Khamenei, che vieterebbe lo sviluppo di armi atomiche per motivi religiosi — un elemento spesso ignorato nel discorso occidentale. Si tratta, tuttavia, di un grande bluff che l'Iran porta avanti dai negoziati nucleari del 2004: analizzando i commenti dell'ayatollah negli ultimi due decenni, si evince facilmente l'inesistenza di una vera fatwa contro la costruzione di un'arma nucleare, ma solo generiche e provvisorie affermazioni contro l'uso di armi di distruzione di massa. Ma soprattutto, nulla di scritto esisterebbe su questo argomento.

Intanto, il principio di legalità internazionale è stato superato dagli eventi. L’attacco di Israele è avvenuto senza alcuna autorizzazione ONU, né discussione preliminare nei consessi multilaterali. “Israele sta facendo il lavoro sporco per noi”, ha dichiarato Friedrich Merz, leader tedesco.

Una frase che, più di ogni altra, chiarisce una nuova geografia morale del conflitto. Che l’Iran abbia già la bomba o meno non conta. Il punto non è più quello. In questa nuova fase della storia di Caoslandia, le percezioni valgono quanto i fatti.

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