Trump e Putin, un minuetto. Ma a rischiare è l'Europa

A parte le battute Trump in questa vicenda sta offrendo un'immagine di impotenza: doveva portare la pace in 24 ore, ma dopo quattro mesi non è cambiato niente

Trump e Putin, un minuetto. Ma a rischiare è l'Europa
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Un minuetto diplomatico fatto di due passi avanti e di uno indietro. Un festival di telefonate, vertici, riunioni che, però, non scalfiscono le posizioni di Vladimir Putin. È l'immagine deludente di quest'ultima settimana di negoziati sulla guerra in Ucraina. Chi sembra scandire i tempi di questa danza che, visto il ripetersi dei massacri potrebbe definirsi macabra, è proprio lo Zar. Più che una sensazione è l'obiettiva analisi dei fatti a dargli questa responsabilità. Ha aperto la strada al primo contatto diretto dal 2022 a Istanbul tra le delegazioni dei paesi belligeranti solo perché non poteva rispondere semplicemente picche alle pressioni di Donald Trump. Poi ha tirato fuori l'idea di scrivere un memorandum che dovrebbe indicare le condizioni per una possibile tregua rinviando il cessate il fuoco a data da destinarsi. Non ha neppure detto «no» ad un incontro diretto con Trump durante la telefonata di due ore ma, nel contempo, non ha dato una data il che equivale a non dire neppure «sì».

Insomma, prende tempo. È il nuovo «temporeggiatore», il «cunctator» come Quinto Fabio Massimo, solo che il dittatore romano contro Annibale prendeva tempo per non dare battaglia, mentre Putin temporeggia nei negoziati diplomatici per attaccare sul piano militare. Appunto, l'inverso. Ma se la strategia dello Zar è scoperta, banale nella sua ovvietà. Non si comprende quella di Donald Trump. L'Europa di fronte ai deludenti risultati della telefonata tra la Casa Bianca e il Cremlino, pardon, e un teatro di Soci (il luogo scelto da Putin per la sua rappresentazione teatrale di due ore), ha deciso il diciassettesimo pacchetto di sanzioni alla Russia e studia già il diciottesimo. Stessa cosa ha fatto la Gran Bretagna. Invece, il Presidente Usa ha valorizzato gli elementi positivi - pochi - del colloquio e non ha dato seguito alle minacce della vigilia contro Putin. Persevera nel suo grande spreco di parole a cui non seguono mai i fatti. Magari si sente troppo simile a Putin e non vuole dargli preoccupazioni.

A parte le battute Trump in questa vicenda sta offrendo un'immagine di impotenza: doveva portare la pace in 24 ore, ma dopo quattro mesi non è cambiato niente; se Zelensky è pronto chiudere domani le ostilità, Putin si limita a ripetere le stesse condizioni delle trattative di tre anni fa. Anzi, a sentir gli ucraini le proposte sono anche peggiori. Ed intanto il capo delegazione russa, il ministro della cultura, cita la guerra contro la Svezia durata 27 anni per segnalare che i russi sanno aspettare, non hanno fretta.

Insomma, segnali non buoni. Si tratta ma non si vede la fine della trattativa. E l'impotenza è un'immagine che Trump rifiuta, rifugge per principio perché è un colpo alla sua credibilità, al suo «machismo» applicato alla politica. Ecco perché la proposta di investire il Vaticano del negoziato, di per sé un fatto estremamente positivo, può nascondere anche la tentazione di The Donald - ripetuta più volte da lui e da Vance - di disimpegnarsi. Un atteggiamento pilatesco che nasce proprio dalla consapevolezza di questa sensazione di stallo, in cui abbondano i proclami mentre latitano i fatti. In fondo potrebbe far parte della sua logica: dire che questa «non è la sua guerra ma quella di Biden e di Putin»; e lasciare la patata bollente, cioè lo Zar, in mano all'Ucraina e all'Europa. È la «linea rossa» che dice di avere in mente, superata la quale potrebbe prendere pure questa decisione.

Una prospettiva che l'Europa deve evitare assolutamente incalzando la Casa Bianca. Se si verificasse un'eventualità del genere, infatti, sarebbe la prova che l'Occidente è diviso su una guerra che si svolge ai suoi confini. E ciò, inutile nasconderselo, implicherebbe che è finito.

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