Zomi, Damian e gli altri chef in missione: "Chi ci pensa alla morte? La gente ha fame"

Il motto della brigata di Andres: "Nutriamo corpo e anima di chi non ha più nulla"

Zomi, Damian e gli altri chef in missione: "Chi ci pensa alla morte? La gente ha fame"
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Nelle orecchie hanno il rumore delle esplosioni, dei droni, delle smitragliate. «Un tuffo alla pancia, ogni volta». Ma scatta il timer in cucina, c’è la pasta da scolare, ci sono le vaschette da riempire. E chi ci pensa più alle bombe. C’è la fila là fuori, hanno tutti fame, bisogna muoversi.

I volontari di World central Kitchen non pensano alla morte, non parlano di guerra, semmai discutono su come gestire la dispensa e la distribuzione, sempre caotica, o su come evitare di cucinare solo carboidrati, meglio calibrarli con proteine e cibi nutrienti. Hanno un solo pensiero in testa: non far morire la gente di fame, non lasciare che i bambini siano mal nutriti. E sono operativi, operativissimi. Con una gioia addosso che, a guardare le loro foto, sembra stiano servendo scolaretti festanti in un centro vacanze, non famiglie distrutte nel bel mezzo di una guerra.

A proteggere gli operatori di Wck non sono bastati gli elmetti, i giubbotti, le insegne sul tetto dell’auto con cui avevano appena consegnato in un deposito cento tonnellate di cibo. In 7 sono morti, tre britannici, John Chapman, James Henderson e James Kirby e altri quattro provenienti da Polonia, Australia, Canada e Stati Uniti. «Mi sto abituando ai droni, ma il tuono delle esplosioni mi colpisce ancora alla pancia» scriveva pochi giorni fa Lalzawmi Frankcom, detta Zomi, sguardo luccicante e sorriso che abbraccia. Ex impiegata della Banca del Commonwealth, 43 anni, cresciuta tra Melbourne e Sydney, Zomi era rimasta in contatto con l’amica Phels, anche lei volontaria fino a poco tempo fa, conosciuta in Guatemala dopo l’eruzione del vulcano: «Zomi aveva una gioia di vivere incredibile, aveva messo il suo cuore al servizio degli altri» racconta la donna al Washington Post. I compagni guardano il video girato una settimana fa e non si danno pace. La famiglia piange la sua «amata e coraggiosa Zomi». E il premier australiano, Anthony Albanese, ha convocato l’ambasciatore israeliano: «È inaccettabile».

Assieme a Zomi viaggiava anche Damian Sobòl, 35 anni, polacco. Damian stava in cucina, e giusto qualche settimana fa compariva in un video con lo chef Oli sul sito della ong. «Un giovane straordinario, amato da tutti» commenta il sindaco di Przemyl. Con la stessa passione per la cucina al servizio degli altri, anche cooperanti da Polonia, Regno Unito, Canada con doppia cittadinanza degli Stati Uniti, e dalla Palestina. Palestinese era Saif Issam Abu-Taha, l’autista e interprete, al volante al momento dell’attacco. «Vogliamo distribuire pasti cucinati con ingredienti locali da cuochi professionisti, cibo non solo per nutrire il corpo, ma anche le anime» è sempre stato l’obbiettivo della brigata voluta dallo chef spagnolo José Andres.

E anche se in guerra è impossibile apparecchiare la tavola o ricreare qualcosa che assomigli vagamente a un ristorante, almeno i sapori devono assomigliare a quelli di casa, trasmettere «umanità, normalità, dignità». A piovere dal cielo sopra Gaza c’è da tempo anche il cibo cucinato da loro, quasi 53mila pasti nel solo lancio di giovedì 7 marzo.

Preparati con il cuore e ben confezionati, a prova di schianto a terra. E chi ha tempo di pensare a morire quando la cucina mobile è da sistemare, quando stanno per arrivare le nuove consegne di scatolame, quando sai che la gente si azzuffa per un pacco di cibo?

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