La notte di Cardiff fu lunghissima. E atroce. Davie Cooper segnò su rigore a nove minuti dalla fine il gol del pareggio della Scozia. Il popolo del Ninian Park stava sognando la grande vittoria del Galles sui cuori coraggiosi di Glasgow. Alex Ferguson era seduto in panchina come assistente di Jock Stein. Si voltò di colpo, i fotografi erano saltati tutti, in gruppo, verso il tunnel di uscita, Stein si era allontanato, cacciando via un reporter con il flash. Nello stesso momento aveva portato una mano al petto, infarto. Sarebbe morto cinque minuti dopo, dentro lo spogliatoio senza voci. Leggendo le parole di Francesco Guidolin, stanco e stressato per questo calcio logorante, sono tornate alla mente le immagini di quella notte gallese. E, insieme, uno dei mille aforismi di Bill Shankly, storico allenatore del Liverpool: «Alcuni pensano che il calcio sia una questione di vita e di morte. Non sono affatto d'accordo, posso assicurarvi che è di più, molto di più». Qualcosa del genere era accaduto anche a Gerard Houllier, professore di lingua inglese e allenatore francese in Inghilterra, dieta irregolare, problemi al cuore, malore, infarto.
D'accordo, Guidolin ha i nervi scoperti come fili elettrici, Luis Enrique abbandona Roma dopo una sola stagione, umiliato, sconfitto e offeso, Pep Guardiola, carico di elogi e di fatiche nervose, si separa dal Barcellona dopo aver vinto l'impossibile ma non riuscendo a sopportare altri pesi, nell'immediato. L'isola del tesoro è contaminata, il calcio esalta e brucia, inietta le sue droghe naturali, passione, tifo, orgoglio, e poi si sgonfia, sviene per il calo di emoglobina. Il fenomeno non è nuovo, inedito, imprevedibile.
Fa parte della sua storia, il ricordo della morte di Jock Stein è ancora forte nel popolo scozzese, britannico e di chi ama questo sport magnifico e perfido. Non è un alibi di comodo, i denari sontuosi non riescono a cancellare le fibrillazioni per un risultato, per le contestazioni, per le minacce.
Fette di vita regalate allo spogliatoio e negate alla propria famiglia. Saltano i fusibili di Delio Rossi eppure Trapattoni resiste, resiste, resiste come era accaduto a Guy Roux per quarant'anni in panchina con il suo fantastico Auxerre che oggi è retrocesso, non potendo più contare, se non come icona («usano i miei occhi per piangere»), sul suo pontefice.
Si può ripensare a Sacchi e alla sua scienza calcistica imprevedibilmente riposta in archivio per il logorio della vita e del calcio moderni. Sacchi è stato come uno scambio di un binario ferroviario, ha scelto di deviare per non restare travolto da se stesso e dall'altissima velocità. Così si spiegano le parole di Guardiola e di Guidolin o la crisi di rigetto di Luis Enrique. Un po' meno quelle in corrente contraria, secondo repertorio, di Zeman che ha detto di poter allenare fino a ottant'anni, se dipendesse da lui medesimo. Dimenticando, tuttavia, che lo stress nervoso non si annuncia, non arriva dopo email, telefonata o altro avviso ma si scarica come un fulmine mentre il cielo è limpido e dovrebbe saperlo proprio il tecnico boemo che ha visto un proprio fedelissimo amico e collaboratore, Mancini, morire, e un calciatore, Morosini, accasciarsi e poi spegnersi. Parole al vento, inutili e irrispettose.
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