Hanno ucciso la famiglia

Cosa sta succedendo nelle scuole, nelle Università? Al crimine commesso dagli studenti di Perugia oggi ci aggiungiamo la strage compiuta da un ragazzo finlandese che ammazza otto suoi compagni di liceo, dopo aver annunciato la strage attraverso il suo blog. E non è così difficile prevedere che tra qualche giorno si aggiungeranno a questi delitti altri delitti in analoghi scenari con analoghi protagonisti: scuole, studenti, insegnanti.
A leggere i verbali dei giovani arrestati a Perugia c’è da rabbrividire. Sesso, orge, casualità dei rapporti, indifferenza per gli affetti: niente ha significato, qualsiasi relazione, azione, decisione si invischia in un nulla di senso come se la vita fosse niente, come se l’amore fosse una parola banale per imbecilli, come se l’amicizia fosse una cosa tra le cose che si liquida con un sorriso e una pacca sulla spalla.
E poi questa presenza devastante di Internet, della comunicazione tramite il computer che, sia pure con modalità diverse, si insinua tra le pieghe del crimine di Perugia, ed è presente in tutta la sua drammaticità nella strage compiuta dal ragazzo finlandese. L’ossessione di esibire, di documentare per lasciare una testimonianza, come nel caso del liceale che ammazza otto persone della sua scuola, oppure i messaggi trasversali, ambigui, protetti dall’anonimato della comunicazione informatica, di uno degli assassini di Perugia.
Voler essere ciò che non si è in grado di far apparire ai propri coetanei o ai propri insegnanti, perché non si riesce ad affrontare la realtà, perché non si riesce ad accettare gli obblighi e le necessità che essa impone. Una spaventosa fragilità: è l’impressione che mi danno questi giovani che entrano prepotentemente nella cronaca quotidiana. E che, francamente, io che faccio ormai l’insegnante da una vita non vorrei neppure conoscere. Non per mettere come uno struzzo la testa nella sabbia per non vedere e non sentire, ma perché la scuola, l’Università non hanno responsabilità. La vera responsabilità della scuola è di non sapere, volere, potere premiare chi merita, ma i giovani criminali di cui stiamo parlando non hanno il nulla al posto del cervello per colpa della scuola, non hanno un pezzo di pietra al posto del cuore per colpa della scuola.
Non mi stancherò mai di ricordare la cosa più ovvia e più dimenticata: dietro a ogni giovane c’è una famiglia. Questi criminali non sono degli Ufo che arrivano da chissà quale misterioso pianeta, hanno una famiglia. Perché non andiamo a vedere come sono cresciuti, che educazione hanno avuto? Certo, quando i riflettori della cronaca illuminano i drammi di questi giovani, la famiglia che c’è alle loro spalle appare generalmente con un’immagine perfetta, talvolta perfino esemplare. E noi non possiamo conoscere (forse non ne abbiamo neppure il diritto) come stiano realmente le cose.
Però con una lucida consapevolezza sappiamo quanto la nostra cultura, almeno da quarant’anni, abbia aggredito con sistematica pervicacia l’idea stessa della famiglia tradizionale e abbia irriso come uno stupido e antiquato pregiudizio l’idea che la famiglia sia il fondamento della società, il luogo di educazione dei propri bambini che un domani, con i valori ricevuti in famiglia, si confronteranno con i valori di altri giovani. Se un ragazzo trova genitori disattenti o assenti per i più diversi motivi, da quelli dovuti alle necessità di lavoro a quelli più egoisticamente futili, cosa porterà nella società, a scuola? Perché non ci ricordiamo che, soltanto un fatto ormai quasi consueto, come la separazione dei genitori, lascia una ferita profonda nei figli, anche se papà e mamma cercano di affrontare il divorzio con intelligenza?
E poi la fragilità, dicevo. Chi ha occasione di parlare con i ragazzi, si accorge di quanto siano fragili di fronte al minimo insuccesso (sia esso un amore non corrisposto, sia dovuto al profitto scolastico), e come il fallimento delle aspettative diventi un motivo per non credere più a niente, per chiudersi in un nichilismo che è diventato la vera malattia spirituale del nostro tempo.

Chi dovrebbe dare a un giovane la forza di rialzarsi dopo una sconfitta, se non la sua famiglia? Se non il padre, soprattutto, che deve essere il modello e l’argine della crescita del proprio figlio? I padri non ci sono: è la prima figura sociale che è stata falciata nella sua autorevolezza e nella sua funzione da una cultura modesta e crudele che ha negato il valore della famiglia.
Stefano Zecchi

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