Hardware e software

Perché Google è finita a processo negli Stati Uniti

L’accusa di abuso di posizione dominante si concentra sugli accordi commerciali stretti da Google con i produttori di dispositivi e di software. Un maxi processo che durerà dieci settimane e che potrebbe cambiare le regole del mercato. Riassumiamo il caso degli Stati Uniti contro Google

L'accusa di monopolio ma non solo: perché Google è finita a processo negli Stati Uniti

Ascolta ora: "L'accusa di monopolio ma non solo: perché Google è finita a processo negli Stati Uniti"

L'accusa di monopolio ma non solo: perché Google è finita a processo negli Stati Uniti

00:00 / 00:00
100 %
Tabella dei contenuti

Il processo si è aperto il 12 settembre con la prima udienza che, da prassi, non entra nel merito. Si tratta di un vero maxiprocesso non tanto per lo spessore dell’accusa, ossia gli Stati Uniti d’America, e neppure per Google che siede al banco degli imputati.

È un processo gigante perché verranno ascoltati 150 testimoni, perché i documenti processuali ammontano in totale a 5 milioni di pagine e soprattutto perché in gioco c’è il futuro delle ricerche online che potrebbero cambiare in modo radicale e duraturo. Prima di giungere a sentenza ci vorranno 10 settimane. Per ridurre tutto all’essenziale, il dipartimento di Giustizia americano accusa Google di monopolio.

Di cosa è accusata Google

Per il governo Usa, rappresentato dal dipartimento di Giustizia, Google tesse delle tele commerciali per raggiungere dei risultati impressionanti: il 91% delle ricerche online transitano attraverso il motore di ricerca di Google. Questa è la parte del dibattimento visibile, quella attorno alla quale si discute e che si sa da tempo, almeno da quando le indagini sono iniziate, nel 2020, nell’era di Donald Trump.

Ci sono altri due numeri che hanno fatto rizzare le antenne all’accusa: 70%, ossia la quota del mercato pubblicitario online controllata da Google e 45 miliardi, ovvero la cifra che Big G avrebbe pagato per fare in modo che i produttori di dispositivi (tra i quali Apple e Samsung) e i principali browser impostino Google come motore di ricerca predefinito. Per il dipartimento di Giustizia si tratta di una posizione tanto dominante da togliere ossigeno ai concorrenti più piccoli e sufficiente a non permettere la nascita sul mercato di nuove iniziative.

Inoltre, secondo l’accusa, la posizione dominante di Google comporta anche un afflusso di dati degli utenti che si traducono in un maggiore appeal per gli inserzionisti. Una sorta di circolo che si autoalimenta.

La posizione di Google

Non è la prima volta che Big G si accomoda al banco degli imputati e non è la prima volta che ha dovuto staccare assegni miliardari per rimediare ai propri errori. La difesa è lapidaria: “le persone non usano Google perché devono, ma perché vogliono”, ha detto l’avvocato Kent Walker. Il difensore ha anche sottolineato che oggi è molto facile cambiare il motore di ricerca predefinito e se le persone non lo fanno è perché riconoscono la superiorità di Google rispetto ai concorrenti. Un assist all'accusa che sostiene proprio una sorta di presunta superiorità, dovuta non tanto alla qualità ma agli accordi commerciali.

Come potrebbero cambiare le ricerche online

Una sentenza sfavorevole avrebbe certamente ricadute sulla fruizione del web. Al di fuori di un mercato in cui le regole vengono dettate da un solo player (Google), si cristallizzerebbero politiche di prezzo e di diffusione a loro modo rivoluzionarie e capaci di sovvertire il modo in cui gli inserzionisti raggiungono i potenziali clienti. Inoltre, il modo in cui il web viene gestito potrebbe subire degli scossoni (e questa non è un’opzione per forza di cose negativa) perché potrebbero trovare spazio concorrenti nuovi, magari non americani, capaci di sovvertire le regole.

Si tratta, però, di pura teoria. I fatti sono ancora tutti da dimostrare, se mai ci saranno. Una multa, peraltro la minore delle sanzioni possibili, non spaventa Google: ciò che fa tremare i polsi a Big G è la natura stessa del processo perché, per la prima volta, davanti al giudice è finito il modo in cui un gigante del Tech acquisisce potere in un mercato, creando le regole che lo animano.

Per capire meglio questo contesto occorre fare un salto indietro di 25 anni, prima del 1998 che corrisponde all’anno di nascita di Google. I browser c’erano e c’erano anche i motori di ricerca: c’era Yahoo! che elencava i siti web, c’era Altavista che ha introdotto la ricerca di pagine web in base a parole chiave. Tutto molto caotico fino a quando Google ha introdotto il Page Rank, metodo che ha organizzato le ricerche in base ad alcuni parametri che determinano l’importanza e l’attendibilità delle pagine web. Il succo è proprio questo: Google ha dettato le regole del mercato fino al punto in cui chi pubblicava siti web li strutturava affinché fossero visibili sul motore di ricerca di Big G.

Se tutte queste logiche dovessero cadere, se il mercato aprisse le porte ad altri attori e a nuove idee, probabilmente cambierebbe il modo in cui usiamo il web o, meglio, il modo in cui il web si lascia usare.

Commenti