Hari: "Il mio Darfur vuole pace, non vendetta"

Intervista con l'autore de Il traduttore del silenzio che ha vissuto in Sudan il genocidio dei neri perpretato dalle tribù arabe. Il racconto: "Quando vidi uccidere mio fratello fu durissima, capii che dovevo trovare una missione: far conoscere al mondo quella strage"

Hari: "Il mio Darfur vuole pace, non vendetta"

Roma - Ha seppellito a mani nude il fratello prediletto, Ahmed, ucciso mentre cercava di proteggere gli abitanti del villaggio natìo durante un attacco. Ha visto tre bambini morire di fame con la pelle raggrinzita e la loro madre impiccarsi con uno scialle al ramo di un albero. Ha scoperto i corpi di 89 persone uccise a colpi di machete. Ha ascoltato il racconto di un uomo che ha assistito all’esecuzione della figlia di 4 anni, infilzata dalla baionetta di un soldato e poi alzata in aria, con il fucile piantato nel corpo, ancora cosciente e sanguinante, come fosse un trofeo di caccia.

Eppure Daoud Hari oggi è sorridente, giocoso e ama profondamente la vita. Nel suo bellissimo libro, Il traduttore del silenzio, bestseller mondiale appena uscito in Italia dalle edizioni Piemme (pagg. 218, euro 14,50, traduzione di Annalisa Carena), non c’è una sola riga in cui trapelino odio o rancore. Hari ha 35 anni ed è un uomo semplice, che non pretende di dare lezioni, né di giudicare gli altri. La sua saggezza è innata e pertanto stupefacente. Se fosse cattolico sarebbe un francescano sulla via della beatitudine, se fosse ebreo sarebbe un Giusto, ma non è altro che se stesso, un figlio del Darfur. Per capire la tragedia di questa terra e del popolo degli zaghawa, le sue pagine autobiografiche valgono più di qualunque approfondimento. Hari ha lavorato come interprete per molti giornalisti occidentali ed è stato testimone diretto degli orrori perpetrati dalle milizie arabe per conto del governo sudanese. Torturato, imprigionato, è scampato più volte alla morte, l’ultima con il giornalista americano Paul Salopeck. Dal 2006 vive negli Stati Uniti, da rifugiato. Incontra il Giornale in un hotel di Roma; il suo sguardo è colmo di luce.

Daoud, come fa a non odiare la vita dopo tutto ciò che ha visto e vissuto?
«Un amico mi ha detto che un giorno impazzirò, ma credo si sbagli. Ho visto persone mutilarsi per la disperazione, altre suicidarsi, molti trasformarsi in zombie. Io non sono caduto in questi abissi grazie alla mia famiglia, alle tradizioni della mia gente, in parte anche a voi giornalisti, ma soprattutto grazie a mio fratello Ahmed».

Perché? Che cosa le ha insegnato?
«Quando ero ancora un ragazzo e volevo entrare nell’esercito, lui mi disse: “Sparare alla gente non fa di te un uomo. È fare la cosa giusta per te stesso che fa di te un uomo”. Allora capii quale fosse il mio cammino e i valori in cui credere».

Ha passato momenti strazianti. Come li ha superati?
«Ripetendomi che dovevo trovare il modo di ridere un pochino ogni giorno, malgrado tutto, o il mio cuore avrebbe finito per esaurire quella felicità che lo fa battere».

È una bella frase, ma richiede una grande forza d’animo. Non è da tutti...
«Ma l’alternativa è lasciarsi sopraffare dal dolore. Serve a qualcosa perdere il senso della vita? Avrebbe aiutato il mio popolo, la mia famiglia, me stesso? Bisogna sforzarsi di pensare al bello anche nei momenti più tragici. In Egitto sono stato incarcerato con 60 persone in una stanza e sembrava che dovessi rimanere lì per anni, ma anziché rimuginare su quella situazione infernale e sui torti subiti, facevo progetti, scherzavo con i miei compagni, parlavo del tempo e di altre cose frivole. Trovavo motivi di conforto, distraevo la mente e così conservavo le energie per ripartire al momento delle liberazione».

E i giornalisti come l’hanno aiutata?
«Quando vidi uccidere mio fratello e altri membri della mia famiglia furono momenti durissimi, ma capii che dovevo trovare una missione: far conoscere al mondo il genocidio del Darfur. E siccome parlavo inglese e avevo la reputazione di persona affidabile, mi misi al servizio dei giornalisti occidentali. Mi dicevo: “Se ti lasci vincere dallo sconforto non potrai lavorare, nessuno vuole un interprete depresso”. Così raddoppiai gli sforzi per sorridere e mostrarmi disinvolto. I reporter mi hanno aiutato a non crollare e io ho fatto altrettanto con loro quando hanno assistito a orrori inimmaginabili».

Si sente un eroe?
«No, perché dovrei? Cerco semplicemente di comportarmi come un uomo degno di vivere sulla Terra».

È pronto a perdonare gli aggressori?
«Le tribù arabe che da anni ci attaccano sono composte per l’80 per cento da analfabeti. Erano i nostri vicini, i nostri amici. È gente semplice che è stata manipolata dal regime sudanese del presidente al Bashir con promesse di arricchimento o con l’istigazione all’odio. Li convincevano che noi stavamo per colpirli e dunque che loro dovevano agire per primi se volevano salvarsi. Oggi molti arabi si rendono conto di esser stati ingannati, alcuni si sono ribellati, tutti vivono nel terrore della nostra vendetta o di essere giudicati dai tribunali internazionali per crimini contro l’umanità».

Hanno distrutto centinaia di villaggi, massacrato decine di migliaia di persone, un sentimento di rivalsa da parte del suo popolo sarebbe comprensibile...
«E invece non risolverebbe nulla. Gli arabi vivono da molto tempo nel Darfur e sarebbe profondamente sbagliato che ora venissero cacciati. Dobbiamo dare loro fiducia e dimenticare, come mi hanno insegnato mio padre e mio nonno: noi accanto a loro, come prima; solo così ci sarà pace».

Lei è musulmano, che ruolo ha avuto la religione nel superare le difficoltà?
«Sono credente, ma non vado in moschea, non prego cinque volte al giorno. Non credo di essere religioso, ma forse per Dio lo sono».

Nei momenti in cui tutto sembra perduto prevale l’istinto o il calcolo razionale?
«Quando hai una pistola puntata alla tempia non hai il tempo di ragionare, né di pensare alla morte; ti lasci guidare dall’istinto, non fosse che per guadagnare tempo. Se hai una pistola puntata alla tempia anche un gesto semplice, come chiedere una sigaretta, rappresenta un’ottima opportunità per restare in vita».

Ha qualcosa da rimproverarsi?
«No. Potrei interrogarmi ogni giorno, ma non lo faccio. È andata così e ora vivo il presente.

Se mi accorgo di aver fatto qualcosa di sbagliato, mi riprometto di non commettere lo stesso errore. Vado avanti, con fiducia. Per servire davvero la mia gente devo amare la vita; anche questo l’ho appreso da mio fratello Ahmed».

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