È una filosofia per Babbani che sognano, e che si lasciano incantare. E così a volte scoprono di non essere Babbani: hanno cespugli di capelli che ricrescono selvaggiamente anche se li tagli, ricevono la posta da gufi e civette, fanno gonfiare le zie come mongolfiere, guidano automobili che volano.
Harry Potter, anche lui, non sapeva esistesse un binario nove e tre quarti: ma poi l’ha scoperto, insieme a tutto il mondo di Hogwarts, che è la sua realtà, quella di maghi e streghe, cicatrici che bruciano, platani che picchiano, scope che decollano. Il mondo di Hogwarts si apre nel mondo quotidiano, è l’altro mondo che si lascia sbirciare ed esplorare e, se riesci a vederlo, ti attrae come una calamita. Per i fan del maghetto ormai è scontato: la magia contamina col suo potere banchi di scuola, libri, insegne dei negozi, camini, caramelle, orologi, tutto. Basta arrivare alla stazione di King’s Cross in orario, e fra il binario nove e il dieci spunta davvero il nove e tre quarti. Ma se sbagli, anche di poco, non c’è speranza: al posto dell’Hogwart’s Express trovi soltanto un muro. E hai voglia a sbatterci contro: sempre cemento è, invalicabile.
In quel piccolo spazio, in quel breve tempo, però, la possibilità dell’Hogwart’s Express è reale: il treno dei sogni che porta a un castello nascosto dove sono state formate generazioni di giovani maghi. I lettori di Harry Potter ci sono abituati, ma dietro c’è tutta una filosofia, non solo estetica. Non è soltanto la concezione della letteratura come costruzione di un mondo, la finzione del romanzo che è verità nella narrazione di una storia. Dietro c’è la rivoluzione del concetto di verità, quella dei Sentieri interrotti di Heidegger: «L’opera d’arte è il farsi evento della verità» ed «essere opera - spiega nel saggio su L’origine dell’opera d’arte - significa esporre un mondo».
L’idea stessa da cui nasce tutta la saga della Rowling è impregnata del pensiero del Novecento e così un libro come Harry Potter e la filosofia di Stefano Regazzoni, docente all’Università Cattolica di Milano (il Melangolo, pagg. 125, euro 10) ha senso non solo come una delle tante interpretazioni più o meno politiche o più o meno spirituali delle avventure del maghetto. Heidegger dice: «Costituendosi nel suo esser-opera, l’opera apre un mondo e lo mantiene in una permanenza ordinata». Ed è ciò che succede ad Harry il giorno del suo undicesimo compleanno quando Hagrid gli consegna la lettera di Silente in cui la sua storia è chiara, all’improvviso. Harry, tenuto all’oscuro dagli zii Babbani orgogliosi della loro babbanità, ignora il suo passato e i suoi poteri magici. Hagrid è arrabbiato e sconvolto che non sappia «niente di niente»: «Del nostro mondo, dico. Del tuo mondo. Del mio mondo. Del mondo dei tuoi genitori».
Perché, accidenti, è sempre stato lì. Sotto i suoi occhi, nelle sue mani. La realtà che si manifesta è altra, ma non è mai trascendente: è «eterotopia», spazio altro - dice Foucault - che si apre in maniera privilegiata a chi vive una situazione di crisi. Come, a esempio, un adolescente segregato dagli zii ottusi. Quelli che gli ricordano così i genitori: «Sapevo benissimo che saresti stato identico a loro, altrettanto strampalato, altrettanto... anormale». E allora per Harry Potter è naturale ciò che dice Michel Foucault nel Filosofo mascherato: «La filosofia è il movimento per cui ci si distacca - con sforzi, esitazioni, sogni e illusioni - da ciò che è acquisito come vero, per cercare altre regole del gioco».
Il gesto della magia è filosofia? Anche. E non solo per i pensatori continentali. Anche la scuola di Oxford sembra tirare acqua al mulino della Rowling e spiegare, in parte, il successo planetario della saga. Perché la magia è l’esaltazione del potere della parola, è il linguaggio che più di ogni altro «fa cose», come dice Austin. L’incantesimo è la parola che trasforma, produce, modifica, crea, distrugge. Uccide. Avada Kedavra. È pericolosa, perché è - secondo la definizione famosa di Austin - «performativa»: cioè fa, esegue, come dice il verbo inglese da cui deriva, che è lo stesso della performance. E certo agitare una bacchetta e pronunciare una formula è uno show, un’esibizione di abilità, di unicità: Lumos, e la bacchetta diventa una pila; Expecto patronum, la magia che dà ancora più forza ai coraggiosi, l’anima per resistere ai Dissennatori che te la vogliono risucchiare; Levicorpus, per far ciò che tutti hanno sognato, far levitare un collega a mezz’aria così che resti appeso per la caviglia; Alohomora, per aprire le porte che gli stregoni hanno sigillato.
La parola potente non è uno scherzo: va pronunciata alla perfezione, come spiega Ermione. La parola del Signore oscuro e dei suoi servi uccide. Dalle tre maledizioni senza perdono non si torna indietro. L’Avada Kedavra è morte: uno solo si è salvato, un bambino chiamato Harry Potter. La prima volta è stato l’amore della sua mamma a proteggerlo. Si salverà un’altra volta, con un incantesimo semplice semplice: Expelliarmus. Addio alla tua bacchetta, Lord Voldemort. È volata via.
La parola è potente e ironica, si fa beffe della retorica dell’avversario. La bacchetta di Harry Potter è gemella divisa di quella di Voldemort, ma un’altra mano la muove. I risultati sono opposti. Come il Cappello parlante assegna gli studenti alle Case di Hogwarts in base alle capacità ma, soprattutto, alla volontà. È anche questa filosofia: un’etica del coraggio, della scelta, della «moralità supererogatoria» che, dice John Rawls, «non è fatta per le persone comuni». È fatta per gli eroi, che vanno oltre il dovere, che non nascondono la vita in uno zaino, che sanno «accettare la possibilità della morte», cosa che - ricorda Silente a Harry - il Signore oscuro non riesce a fare.
Poveretto, non aveva letto Heidegger. E neppure Nietzsche, visto che anche col destino se la cava maluccio: insegue una profezia che, alla fine, gli è fatale.
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