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Herat, quelle donne in carcere La cella? Meglio della famiglia

Siamo entrati in una prigione afghana. E le detenute ci confessano: "Le pene sono severissime. Ma se tornassimo a casa ci ucciderebbero". Raina e i suoi tappeti, passaporto per la libertà

Herat, quelle donne in carcere 
La cella? Meglio della famiglia

Nadia Muratore

Herat - È azzurro come il cielo, il portone che separa la libertà dalla prigione e, spesso, la morte dalla vita. Oltre a quel rettangolo di ferro, che inutilmente i dipinti cercano di ingentilire, c'è il carcere di Herat, la città più grande dell'Afghanistan, dopo Kabul. Al suo interno 1.500 uomini - dei quali 120 condannati a morte - e 95 donne che spesso scontano pene per reati che in Italia non sarebbero neppure considerati peccati veniali.

L'aver amato un uomo diverso da quello scelto dalla famiglia, essere rimasta incinta fuori dal matrimonio o l'aver mancato di rispetto a un padre padrone. Colpe gravissime in Afghanistan, dove la donna vale meno di un gregge di pecore e scostare il burqa dagli occhi per guardare una vetrina può essere considerato un grave affronto alla legge e alla morale. In Italia la maggior parte di loro non sarebbe rinchiusa in carcere: secondo la nostra legge non hanno commesso alcun reato. Qui - paradossalmente - espiare queste colpe in una prigione diventa il modo, l'unico modo, per sfuggire alla vendetta dei familiari, giudici spietati che preferiscono uccidere la figlia accusata di disonore. Il carcere diventa così, senza volerlo e senza saperlo, una struttura di accoglienza per donne che hanno osato ribellarsi.

Quella lastra di ferro, alta oltre otto metri, è il loro lasciapassare per la vita, un biglietto della lotteria che può essere vincente se, una volta uscite, riescono a rifarsi una vita lontano dal proprio villaggio. Le tre guardie che piantonano l'ingresso faticano a trovare i chiavistelli giusti: si vede che sono più abituati a chiuderle le porte, che non ad aprirle. Trovare nel mazzo di chiavi, lunghe diversi centimetri, quelle che si incastrano perfettamente nella serratura, diventa ancora più difficile se invece di guardare quello che fai butti l'occhio sui visitatori che attendono di poter entrare: sono i primi che vedono senza manette ai polsi. Questo portone è solo per visitatori, ma prima d'ora nessuno aveva mai avuto la possibilità di varcarne la soglia. Lungo il corridoio una donna con il burqa, legata con le catene a tre uomini, alza appena il capo quando passiamo, giusto per sbirciare cosa c'è al di là di quella porta.

Rumore di chiavi che girano e voci concitate delle guardie fanno ben sperare in un'apertura rapida, ma la voglia di varcare a testa alta quella soglia fino ad ora inviolata, viene immediatamente delusa. Tutto quel girar di chiavi - che dura diversi minuti - non spalanca il portone che svetta sulle guardie armate: ad aprirsi è una piccola porta sulla sinistra, che obbliga i visitatori a fare l'inchino al direttore del carcere che - sorridente e perfetto nella sua divisa scura - attende nel giardino interno. Un'immagine bucolica che non ti aspetti, dove fiori e piante si intervallano a pantaloni e camicie freschi di bucato che svolazzano al vento. «Oggi era giorno di lavanderia», precisa il direttore Majeed Sadiqi, che ha accanto a sé un interprete. È lui a fare da cicerone nel penitenziario costruito grazie al finanziamento del Provincial Reconstruction Team, il Prt italiano che realizza progetti per incrementare lo sviluppo di Herat. Culle e laboratori di tessitura si alternano a celle spartane e alla cucina dove le detenute si preparano i pasti. «Prima le donne erano rinchiuse nel carcere maschile - spiega l'interprete imboccato dal direttore -, ma c'erano sempre problemi, così abbiamo costruito questa struttura, dove accogliamo anche bambini».

Di giorno le celle sono tutte aperte e vuote: le detenute sono al lavoro. Imparare un mestiere fa parte del percorso di riabilitazione che può servire per ottenere uno sconto di pena. I laboratori sono piccole stanze senza finestre dove tre, quattro ragazze con il capo coperto, lavorano al telaio e realizzano tappeti. I movimenti sono lenti e precisi, un tira e molla, un vai e vieni della stoffa che si intreccia, che dura diverse ore, senza mai una pausa. Ragazzine di diciassette anni, sedute per terra con le gambe incrociate, accanto a donne più anziane - che in realtà superano appena la quarantina, nonostante le rughe che solcano i loro visi - non alzano mai la testa dalla tela. L'ultima seduta verso la porta è la responsabile che insegna, controlla, guida i movimenti delle nuove arrivate. Gli occhi fissi sui fili da imbastire, le mani che corrono veloci sul telaio, quei movimenti che a noi sembrano così monotoni, per queste donne rappresentano una via di fuga dal carcere, la possibilità di ricostruirsi una vita.

Il comandante Sadiqi snocciola nomi e storie così precise che ti viene il dubbio che stia bluffando: «Lei è Sunia, ha 25 anni e ha commesso reati contro la morale, questa è Turbinai, ha tentato di uccidere l'uomo che da anni la violentava. Le conosco tutte, sono anni che stanno qui». È gentile il direttore, però si irrigidisce quando chiediamo di vedere la stanza dell'impiccagione.

Nessuna si volta nel sentir pronunciare il proprio nome: continuano imperterrite a lavorare come se noi non esistessimo, o come se loro fossero in un altro mondo. Alcune sono qui per scontare un reato commesso da mariti o fratelli: per l'economia domestica è meglio mandare una donna in prigione che non un uomo. Alla fine del corridoio la porta si apre su una parte del giardino dove giocano i bimbi delle detenute. «Ci prendiamo cura di loro - conclude il direttore -. Le famiglie li abbandonano perché figli di peccatrici e lasciarli nei villaggi significa spesso mandarli a morte sicura».


Più in là c'è l'uscita: per guadagnarsi la libertà bisogna passare sotto un arco azzurro come il portone d'ingresso, dove campeggia la scritta: Goodbye.

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