nostro inviato a New York
L'ultimo brandello di certezza di Hillary cade nella notte di Austin: «Qualunque cosa accada, sono onorata di aver fatto parte di questa campagna». Nel gergo clintoniano significa che per la prima volta la candidata inevitabile pensa di non potercela fare. «Qualunque cosa accada». Cioè: anche se non dovessi vincere. Hillary lo sa. Deve rincorrere da più di un mese, controlla i sondaggi e s'accorge che il vento è contrario: spinge Obama e frena lei. Aveva voluto questo dibattito in Texas per giocarsi le ultime mani di una partita a poker. Il 4 marzo è la chiamata finale: se vuole arrivare alla nomination deve vincere nello Stato di Bush e in Ohio. Deve vincere bene, cioè con distacchi tanto grandi da lasciare pochi delegati all'avversario. Invece i numeri dicono che adesso sono testa a testa. Pareggio, che sarebbe la vittoria di Obama. Sarebbe l'ultimo cancello prima della nomination. Il primo afroamericano mezzo presidente. Sorride amara, Hillary. Dal palchetto del dibattito cerca di accusare il suo sfidante: «Le tue promesse di cambiamento sono non sono cose in cui si può credere, sono cambiamenti in fotocopia». Tira fuori la storia del plagio di Barack a un discorso del governatore del Massachusetts. Attacca perché ha bisogno di spazio e nuova visibilità. La donna più mediatica del pianeta arranca sulla popolarità. Per questo torna umana e ammette di essere in difficoltà. Quella mezza frase vale più dei numeri. Poi c'è il resto: ha rimesso in pista il marito Bill. Lui è in Ohio e adesso la pensa come la moglie. Dice che c'è la possibilità di fallire. Lo fa con gli elettori e un po' si scarica la coscienza: «Se Hillary vince in Texas e Ohio penso che sarà la vincitrice della nomination, se voi non ci riuscite, non credo che lei ce la potrà fare. Dipende tutto da voi».
Obama se la gode. Questo dibattito l'ha accettato: s'è fatto pregare così come ieri ha acconsentito a farne ancora un altro. Martedì a Cleveland. Risponde con calma alle domande. Non accusa. Irak, Cuba, immigrazione. C'è un po' di polemica tra i candidati sulla questione del sistema sanitario: Hillary accusa Obama di non voler dare la copertura a tutti. Lei sa che quella è la sua carta vincente: la sanità. Ha un piano che può funzionare, Hillary. Adesso non conta, però. Di fronte alle domande vale il volto: l'avversario è disteso, lei è corrucciata. Si vede che soffre. Più tardi alla Cnn sarà costretta a smentire le voci di dimissioni: «Io voglio vincere, ma non sono in grado di fare previsioni su quello che accadrà».
Prima di salire sul palco Hillary ha avuto l'aggiornamento della situazione pericolante: sta spendendo troppo per la sua campagna elettorale e la cosa sta irritando i suoi finanziatori, visto che la strategia seguita dalla senatrice di New York non sta dando grandi frutti.
Il New York Times l'ha saputo e l'ha scritto. I reporter che un tempo le erano amici si sono divertiti a raccontare le spese pazze della sua campagna: a Las Vegas le camere all'Hotel Bellagio (quello di Ocean's Eleven con George Clooney), uno dei più belli e lussuosi, sono costate oltre 25mila dollari a fine gennaio. La Clinton ha anche pagato profumatamente i suoi più stretti collaboratori. Qualcuno ora dice troppo: la campagna deve a Howard Wolfson, il suo portavoce, 730mila dollari (267mila solo per gennaio), mentre la sua stratega per i media, Mandy Grunwald, ha presentato una fattura di 2,3 milioni di dollari. Il New York Times è pesante. Parla di errori, svarioni, spese imbarazzanti. Tra gli errori dell'ex first lady cita gli 800mila dollari versati alla Sunrise Communications, società della South Carolina che avrebbe dovuto aiutarla a sedurre gli elettori neri dello Stato. Peccato che Obama ha poi vinto alla grande.
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