Cultura e Spettacoli

«Ho fatto l’assassina la pazza e la nevrotica Quanti film inutili»

L’attrice francese è un’acclamata «Maria Stuarda» in teatro a Parigi

Enrico Groppali

da Parigi

Sono passati sei anni dal suo trionfo sulle scene parigine nei panni della Dame aux camélias e si contano sulle dita i film che, nel frattempo, ha accettato di girare ed ecco che quando tutti la dichiaravano finita («Isabelle sta male», «Isabelle sta morendo?», «Macché, Isabelle è malata d’amore», titolava a piena pagina Paris-Match), con uno di quei balzi insoliti e prodigiosi di cui lei sola conosce il segreto, la Adjani è tornata alla carica. Privilegiando, una volta ancora, il palcoscenico al set dove ogni sera, in un tempio consacrato alla prosa come il Marigny, registra il tutto esaurito con la sua Maria Stuarda. Che, guarda caso, non è la famosa tragedia di Schiller ma la pièce, inedita in Francia, di uno scrittore geniale ma scomodo come Wolfgang Hildesheimer che ha puntigliosamente cronometrato in un one man show lungo due ore L’ultima notte di Maria Stuarda in attesa dell’esecuzione.
Come mai ha scelto per la sua rentrée il testo spinoso e controverso di uno scrittore anomalo e, nella patria di Cartesio, assolutamente sconosciuto che per tutta la vita peregrinò da Amburgo fino in Palestina senza mai trovar pace, Mademoiselle Adjani?
«Perché a cinquant’anni, è la mia età e la dichiaro con orgoglio, si devono compiere scelte radicali. Non mi sono mai piaciute quelle colleghe, non faccio nomi per carità, che si assicurano i diritti delle pièce che vanno di moda a Londra e a New York per dimostrare ai loro fan che hanno superato Glenda Jackson al National o Glenn Close nel circuito di Broadway. Il palcoscenico non è una corsa a ostacoli che s’intraprende per raccattare una medaglia, ma il luogo del pensiero».
Una definizione severa, mi permetta, che poco o nulla concede al divertissement. Non ha paura che il pubblico si stanchi? Lo sa o no che alla fine della Notte di Maria Stuarda persino i più agguerriti tra i suoi ammiratori le rimproverano un excés d’abstraction?
«Mi dispiace per loro. Sinceramente. Ma io non intendo abdicare alla cultura in nome del degrado che ci incalza da ogni lato. Preferisco avere cento spettatori per sera che si interrogano sul senso di ciò che propongo loro piuttosto di finire allo Chatelet a ballare e cantare nella Dame de chez Maxime, che di recente mi è stata ventilata come una grande occasione». Perché? Anche Feydeau, in fondo, è stato un rivoluzionario contestando con acredine la borghesia del suo tempo, non crede? «Sono d’accordo solo a metà. Gli anni Sessanta, con la smitizzazione, sullo schermo, del cinéma de papa ormai sono lontani anni luce. Come, a teatro, sono diventati grotteschi i drammi didattici di Brecht ispirati al mito della classe operaia. Oggi con la crisi petrolifera e la proliferazione dell’Islam, che senso ha inalberare la bandiera rossa?».
Va bene, ma proporre sulla scena il martirio di una regina scozzese vissuta nel sedicesimo secolo, non suona come un facile alibi?
«Ha mai letto le dichiarazioni di Hildesheimer sul teatro? Scritte nel’45 quando lui, ebreo tedesco costretto a vagare per mezza Europa, fu ingaggiato come traduttore simultaneo al Processo di Norimberga?».
Non ancora, ma le giuro che lo farò.
«Sono contenta per lei. Vede, a quell’epoca, quando dichiarava il suo amore per la letteratura e la sua diffidenza per la scena, l’autore della mia Stuarda ci regalò nero su bianco una frase significativa: “A volte mi son lasciato prendere la mano dall’eccentricità, per essere all’altezza di quel comportamento che in molti mi rimproveravano. Un errore per cui ancor oggi mi disprezzo”, ha lasciato scritto. Un’autoanalisi spietata che ha rimesso pari pari in bocca a Maria quando si congeda dal mondo per affrontare il patibolo».
Mi sta dicendo che L’ultima notte è un testo politico?
«In un certo senso sì, è politico. Ma le dico di più. È forse l’unico modo civile, oggi, per un interprete, di lanciare dalla scena un messaggio che non puzzi lontano un miglio di retorica. Noi, in Occidente, dobbiamo rileggere punto per punto il nostro passato, vagliare la storia, correggerne l’impatto se vogliamo salvarci».
Solo a teatro... e il cinema?
«Ci ho creduto tanto, ci ho creduto troppo. E ho fatto troppe scelte, più che sbagliate, inutili. Per anni, dopo Adele H., mi son vista affibbiare ruoli di pazza, d’assassina, di nevrotica. Solo Chéreau, nella Regina Margot mi ha visto come una donna, e non come una bambola».
Facendola piombare, anche lui, nella Storia. Un destino o una maledizione?
«Né l’uno né l’altro. Direi piuttosto una benedizione, oggi che, nella vita, s’incontrano ovunque dei simulacri e mai dei personaggi».
Non sarà perché, nel frattempo, anche Isabelle Adjani è diventata un personaggio? Molti hanno commentato in questo senso la notizia del suo imminente debutto discografico in un album intitolato B.O.
«Sbarazziamoci subito da un equivoco: io sono e resto un’attrice che mai, dico mai, diventerà una cantante. E ciò che mi ha convinto ad affrontare questa nuova esperienza, non è l’ambizione di aggiungere nuove frecce al mio arco».
Ah sì, e allora cos’è?
«Il bisogno di esprimermi con le mie parole, uscendo una volta tanto dal mio ruolo di portavoce degli autori. Una sfida che condivido con Pascal Obispo col quale sto lavorando intensamente da un anno e mezzo per realizzare un prodotto che tutto sarà fuor che commerciale. Io lo definisco un film di parole dove chi ascolta ricreerà a suo piacere l’immagine che ci sta a cuore».


Ossia?
«Ossia la nostra lenta spaventosa Apocalisse».

Commenti