"Ho riscritto le canzoni del mio strano Sessantotto"

Il cantante comincia il tour che riabilita «Questo piccolo grande amore», brano-simbolo del romanticismo anni 70

MilanoAlla fine Claudio Baglioni ce l’ha fatta. Dopo trentasei anni (il disco è del 1972) è sceso a patti con il suo tormento, con Questo piccolo grande amore che è uno dei brani simbolo della musica leggera italiana, quello che con Nel blu dipinto di blu e Vita spericolata ha dato le coordinate alle nostre canzoni non politiche. «Quella sua maglietta fina, tanto stretta al punto che...». E così guardatelo, Baglioni, sul palco dell’Allianz Teatro mentre sta facendo le ultime prove di A prima vista, il concerto durante il quale da ieri sera fino al 22 lui canta tutti brani di quell’album riarrangiati (e talvolta riscritti) per attualizzarli. È un’anteprima di quel gigantesco progetto, chiamato con l’acronimo QPGA, che in tre mesi snocciolerà il benedetto piccolo grande amore in tutti i formati possibili: un film (esce l’11 febbraio), un romanzo (fine febbraio), un nuovo disco (fine marzo) e un’altra tournée, che partirà in pompa magna a tarda primavera. Insomma, Baglioni scende a patti con il proprio passato e lo fa come suo solito: senza mezzi termini.

Caro Baglioni, lei era addirittura arrivato a escludere «Questo piccolo grande amore» dai suoi concerti.

«Eh sì, negli anni Settanta ho scantonato un po’ da ciò che significava questo brano, ho fatto come De Andrè con la Canzone di Marinella. Diciamo che per me è stato come fare i baffi sul mio manifesto... Di sicuro, in quegli anni ho sofferto molto di non essere considerato un “vero cantautore”».

E adesso?

«Da quattro o cinque anni mi è venuta voglia di riprendere queste canzoni e riscriverle come lo avrei fatto oggi».

Ma le storie d’amore forse oggi hanno altri connotati.
«Senz’altro è così. Alla fine degli anni Sessanta, i giovani iniziarono a sognare insieme di cambiare il mondo. Poi ciascuno di loro continuò a farlo da solo. Oggi non so se c’è ancora qualcuno che sogni d’amore».

I libri e i film di Federico Moccia dimostrano di sì.

«Be’, tra le nostre storie ci sono almeno trentacinque anni di differenza. Questo piccolo grande amore racconta dell’ultimo innamoramento che ci si concede prima di affrontare definitivamente la vita. Allora era senza dubbio in controtendenza».

C’era la contestazione.

«Ma nella mia Centocelle non c’era proprio nulla. Per noi la rivoluzione sarebbe stata metterci le maglie bucate dei ricchi che vivevano in centro. Noi invece ci vestivamo ancora bene, volevamo apparire. Era tutto molto ingenuo, ma la frase “immaginazione al potere” ci piaceva molto».

Lei ha mai contestato?
«In realtà sono andato a tre o quattro manifestazioni, ma in ogni carabiniere vedevo la faccia di mio padre, che faceva quel mestiere lì e ogni due giugno mi portava alle sfilate».

Durante il suo concerto ci sono immagini del film. E il protagonista non è molto contento di fare il militare.
«In effetti, l’idea della naia non l’ho mai capita».

Ma lei non l’ha neppure fatto, il servizio militare.
«Ero all’Università, poi ho sbagliato il conto degli esami e mi sono ritrovato alla visita di leva. Ho provato in tutti i modi di evitare di partire, cercando le raccomandazioni più improbabili. In realtà, sono molto miope e quindi mi hanno riformato subito. Ma la gente ha subito pensato che io avessi avuto un favore perché allora ero già conosciuto».

Baglioni, oltre al libro, ai concerti e al disco c’è pure un film.
«Me l’hanno proposto tante volte, stavolta ho avuto il controllo su tutto, sulla sceneggiatura e sulle musiche».



Mai pensato di fare l’attore?

«In realtà nel ’70 ho recitato in un film di Castellani sulla scomparsa di Majorana. Ma non credo di meritare l’Oscar. Poi negli anni 80 mi hanno proposto un film con Lucio Battisti. Ma quello non è proprio il mio mestiere, non c’è niente da fare».

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