"Ho salvato mia moglie dall’eutanasia"

L'accanimento terapeutico riporta una donna alla vita. Lei fu colpita da aneurisma, per i medici non c'era speranza, ma il marito accettò un'operazione disperata. Il racconto di Edoardo: "Prima dell'intervento i medici mi dissero: nel migliore dei casi sarà un vegetale. Ma perché avrei dovuto dire alla scienza di fermarsi? Avrei sentito di ucciderla"

"Ho salvato mia moglie dall’eutanasia"

Vedano Olona (Varese) - Tutto diventa relativo, a pochi centimetri dalla fine. Le stesse cure mediche hanno nomi diversi, a pochi centimetri dalla fine. Molti le chiamano accanimento terapeutico, come abbiamo tutti imparato in questi mesi di furibondo caso-Welby. Ma per questo marito di Vedano Olona, oggi cinquantenne, impresario edile con qualche esame di ingegneria a carico, non sono nemmeno discorsi da avviare: quel che ha fatto lui, nelle settimane a cavallo di due millenni, tra la fine del 1999 e l’inizio del Duemila, andrebbe al massimo definito come semplice caso di accanimento affettivo.
Adesso Edoardo Tenti è qui, nel salotto di casa, mano nella mano con la sua miracolata, la signora Pinuccia. Al piano di sopra, Martina e Rosanna, le due figlie di 22 e 17 anni, orfane mancate, sono immerse negli studi universitari e liceali. La famiglia offre un bel vedere di sé, come tutte le famiglie che hanno provato e faticosamente superato le vere difficoltà della vita. Mai, in questa casa, potranno dimenticare. E per questo, dicono, vogliono raccontare.
Il capofamiglia ricorda date, ore, minuti. Comincia così. La mattina del 9 dicembre ’99, venerdì, esce di casa alle 7 per raggiungere il cantiere. Alle 7,20 riceve una telefonata della piccola, Rosanna, nove anni appena: «Papà, corri, la mamma non sta bene». Lei, la mamma, che all’epoca gestisce un negozio di merceria in paese, adesso ricorda solo questo: «In quei giorni ero molto stanca. Quella mattina ho avvertito un tremendo dolore di testa. Poi basta: come si fosse spenta la luce».
Il racconto continua per bocca del marito. «Quando arrivo a casa, vedo già l’ambulanza partire a sirene spiegate. Ho solo il tempo di affidare la bambina a mia cognata, che abita vicino. La grande, per fortuna, è già fuori per la scuola. Poi mi precipito al pronto soccorso di Varese. E lì mi aspetta il momento più brutto della mia vita...».
Come dimenticare, ripete Edoardo. Sono le 8,30, quando il neurochirurgo lo prende in disparte e tenta di imbastire con parole lievi il solito discorso pesante come pietra tombale: «Consideri sua moglie morta. Si tratta di aneurisma al sifone carotideo destro. Ha un leggerissimo segno di attività cerebrale. Ma non c’è più niente da fare».
Nemmeno il tempo di balbettare qualcosa, e subito il medico lo mette di fronte al secondo momento più brutto della sua vita: decidere il destino della moglie, o meglio di quel che ne rimane. «Mi dice: se ci dà il permesso, vorremmo provare un intervento nuovissimo. Però devo essere chiaro: non risolve nulla. Anche in caso di successo, nella migliore delle ipotesi sua moglie sopravviverà come un vegetale».
Siamo al nocciolo vitale della storia. Edoardo rivede in un secondo tutto il film di una vita vissuta in due. L’ha conosciuta quando aveva 17 anni e lei ne aveva 15. Si sono amati sempre, sono la stessa cosa, lo saranno fino ai punti estremi dell’eternità. Il solito dilemma: ha senso infliggerle sofferenze inutili? Eppure, confessa ora, il ragionamento non ha alcun risvolto drammatico. Non c’è devastazione. Solo istinto d’amore. «Avevo in mano la vita di Pinuccia. Perché dovevo dire io, alla scienza, fermati? Avrei sentito di ucciderla. Ho detto: dottore, operate. Se devo scegliere tra una morta e una vegetale, scelgo una vegetale. Almeno starà qui con me. Saremo ancora vicini, in un altro modo, come sempre. Fate presto, fate quello che dovete fare».
Dodici ore di intervento, in gergo un vero e proprio «lavaggio del cervello». All’uscita, però, il primario mostra una Tac: «Purtroppo, sua moglie sta morendo». Edoardo chiede di vederla un’ultima volta, almeno un saluto. Passano tre giorni. Martedì 13 dicembre c’è un secondo intervento. Il commento dei medici non è molto diverso: «L’abbiamo fatto per dovere. Non cambia nulla».
Edoardo sorride: «A casa avevo due ragazzine cui non sapevo cosa raccontare. Ricordo solo che è risaltata fuori la mia fede da cristiano debosciato, tre messe all’anno quando andava bene. Ho pregato, Dio solo sa quanto ho pregato. Su e giù dal Sacro Monte, il santuario di Varese, chiedendo l’impossibile».
Vai a sapere: l’impossibile cade dal Cielo nelle forme più impensate. «La vigilia di Natale, alle 17, i medici mi chiamano. Hanno una strana luce in volto: guardi, sembra impossibile, ma abbiamo sciolto la prognosi. Sua moglie sopravviverà. Certo non sappiamo ancora come, ma sopravviverà. Io? Vorrei solo saltare in braccio al primario...».
Riassumo il seguito, la parte più dolce, con l’aiuto della signora Pinuccia. Nei giorni di Natale la condannata all’ultima partenza ha già disfatto le valigie: è certo, resterà. «Il primo ricordo nitido? I botti di Capodanno, mezzanotte: anch’io saluto il nuovo millennio, io che ero già via...». Il 18 gennaio è dimessa, due mesi dopo è di nuovo in negozio a vendere lana e fettucce.
Come spiegare? Non se lo spiegano nemmeno i medici. Sei anni dopo, Edoardo e Pinuccia scherzano teneramente sul proprio destino ai confini della realtà. Chiedo: che cosa volete comunicare, fuori, agli altri? Edoardo si fa serio: «Non voglio fare grandi discorsi. Non mi competono. Però ricordo che in quei giorni tremendi mi sono sempre rimbalzati in testa i versi dei miei studi liceali: fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza. Non ho mai pensato di dover essere io a fermare le macchine, la medicina. E tanto meno ho vissuto come accanimento terapeutico quel che le hanno fatto. Tutto mi è tornato davanti agli occhi con il caso Welby. Lo dico con tanto rispetto: capisco lui, al limite della sofferenza. Ma chi gli stava accanto... Parlare di dolce morte mi sembra atroce. Piuttosto, io mi dicevo: e se fra cinque anni la scienza riuscisse a restituirmela? Decida Dio, non io».
Edoardo guarda sua moglie, che semplicemente sorride, come quando erano nel fiore degli anni e mai avrebbero pensato ad un futuro diverso, distanti l’uno dall’altra. No, non resta molto da aggiungere: vale come testimonianza. Forse, vale per dire che non è mai facile, a pochi centimetri dalla fine, scegliere la cosa giusta. Beato chi ha certezze, a pochi centimetri dalla fine. Edoardo scuote la testa.

Poi, a mezza voce, stringendo la mano di sua moglie, svela il pensiero che non l’ha mai abbandonato da allora: «Se in quei giorni avessi detto non operatela, risparmiatele l’ultimo supplizio, non accanitevi... Che ne sarebbe di noi, adesso?».
Cristiano Gatti

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