Quando ascoltiamo la televisione o leggiamo i giornali, quotidiani e settimanali, ritorna come un leit motiv il pianto greco non tanto o non soltanto dei giovani, ma delle generazioni di mezzo, che incessantemente commiserano il destino di chi è giovane oggi, che sembra essere predestinato a un futuro di disoccupazione, di precarietà, di sacrifici intollerabili.
Gli anziani, quelli che hanno vissuto i veri tempi duri, quelli che erano bambini o ragazzini negli anni bui della seconda guerra mondiale, tacciono, non danno testimonianza di quella che fu la loro gioventù, quando ci fu e non fu stroncata, come per molti avvenne, prima del raggiungimento dell'età adulta.
Restano testimonianze nei film del Neorealismo che ormai pochi guardano, dimenticando che sono una grande tappa e soprattutto una grande testimonianza di ciò che fu la vita delle generazioni di giovani nati fra gli anni trenta e quaranta, troppo giovani forse per comprendere appieno la tragedia della guerra in cui erano loro malgrado coinvolti, ma non così piccoli da non soffrire fame, privazioni, sacrifici e in seguito mancanza di lavoro e di prospettive per il futuro.
La mia è la testimonianza di una bambina che allo scoppio della guerra, nel 1940, aveva sei anni. Famiglia della media borghesia torinese, i due genitori insegnanti di Liceo, tre fratelli più piccoli, casa in affitto in una zona decorosa, la tranquilla vita piccolo borghese di quegli anni.
Tutto travolto, spazzato via da una bufera che all'inizio non venne individuata da molti per ciò che era e sarebbe stata, anzi fu da moltissimi accolta come una corsa verso il progresso e la conquista, ma che ben presto rivelò il veleno nascosto sotto la retorica imperante, un veleno che ci portammo dentro per cinque lunghissimi anni e che modificò dalle radici quella che avrebbe potuto essere la nostra vita. Certo i sacrifici più grandi furono per gli adulti di allora, che cercavano in ogni modo di proteggere i loro figli, i più piccoli e indifesi: ma nessuno poté proteggere chi era bambino in quegli anni dalla paura anzi dal terrore dei bombardamenti, dal freddo e dalla fame che spesso patimmo, dallo sradicamento dello «sfollamento» che ci costrinse sotto le bombe a lasciare le nostre case, ogni nostro avere, la nostra scuola la cerchia di amici e conoscenti, per buttarci allo sbaraglio verso i paesini più sperduti dove spesso trovammo altrettanta fame e altrettanta paura, e al posto delle bombe che cadevano dal cielo la guerriglia fra partigiani e «repubblichini».
Per noi niente giocattoli, niente vestiti firmati e nemmeno vestiti fatti a nostro uso, nel senso che ci venivano adattati gli abiti smessi degli adulti; nulla di simile neanche lontanamente a quella galassia di oggetti superflui che oggi sono «indispensabili» per qualunque bambino di classe sociale medio-bassa.
La mia famiglia fu tra le fortunate, perché ci accolsero i nonni materni che vivevano in un piccolo paese del Piemonte, e avemmo così un vero tetto sulla testa: ma mio marito, di poco maggiore di me, trovò ospitalità fuggendo dai bombardamenti di Genova in una rimessa per attrezzi agricoli benevolmente concessa da un contadino dell'entroterra ligure, dove mancava tutto, servizi igienici, acqua corrente, riscaldamento: egli stesso, allora già ragazzino, costruì per sé e per i genitori un gabinetto di decenza fatto di pali e frasche e costruito a labirinto, che quando la sua famiglia ebbe la fortuna, mesi dopo, di trovare una vera casa, fu lasciato come oggetto prezioso alla famiglia dei contadini ospitanti.
Qualcuno potrà obbiettare che certo, la vita era dura, ma era la guerra, un periodo sia pur lungo che poi passò.
Mi chiedo se chi non li ha vissuti possa avere una minima percezione di quanto duri, per tutti ma in particolare per i giovani di allora, furono gli anni che immediatamente seguirono la fine del conflitto.
Avevamo perso tutto: la casa, distrutta dai bombardamenti, il lavoro dei miei, sbalestrati come cattedra d'insegnamento, quando andava bene, fra tutti i capoluoghi di provincia (già durante la guerra ogni giorno partivano con mezzi di fortuna da Biella per andare a insegnare a Novara), le scuole anch'esse semidistrutte.
Avevamo invece, questo è vero, una grande forza d'animo maturata nelle avversità e una grande speranza in tempi migliori che comunque, chi uscì indenne dalla guerra, seppe costruire con le sue mani. Senza piangersi addosso, senza invocare diritti ma caricandosi sulle spalle i doveri, magari mugugnando ogni tanto perché, come si dice a Genova, «il mugugno è libero», ricostruendo pian piano quanto era stato distrutto e al tempo stesso un futuro vivibile.
Sorvolo sulle mie vicende scolastiche che mi portarono a una laurea in Lingue e letterature straniere, e voglio invece ricordare l'iter del mio percorso lavorativo come insegnante di scuola superiore: cominciai ad insegnare nel famoso sessantotto, e se non ebbi mai problemi con gli allievi dei quali conservo un ottimo e nostalgico ricordo, ne ebbi, come tutti i miei colleghi, con la burocrazia scolastica e con la difficoltà, che già allora esisteva ma della quale nessuno discettava, di trovare posti di lavoro nell'insegnamento. Ritorna talvolta nei miei sogni ( o meglio incubi) il «marché aux esclaves» che era la convocazione in Provveditorato per gli incarichi e le supplenze annuali. Sposata e con due figli piccoli, fui letteralmente sbattuta su e giù per la provincia di Genova con allargamenti alla regione, e dopo concorsi vinti e abilitazioni superate dovetti lungamente aspettare per avere una cattedra mia, che mi arrivò finalmente quasi alle soglie della pensione. Nulla di così diverso, a quanto pare, da ciò che succede oggi.
Per questo, francamente, quando sento levarsi il coro unanime di lamentazioni sulla precarietà del lavoro oggi, non mi sento di commuovermi più di tanto.
Chi veramente vuole lavorare, e accetta anche di svolgere mansioni che non gli sembrano adeguate alle sue aspirazioni e ai suoi titoli, un lavoro lo trova o se lo inventa: come le simpatiche ragazze che in centro storico, a Genova, in una deliziosa piazzetta che porta il nome del trattato del Ninfeo, storico patto commerciale fra Genova e Costantinopoli, si sono inventate un asilo nido per bambini le cui mamme hanno bisogno di qualche ora di libertà per fare la spesa o altro: un servizio sociale che con poca spesa offre ai piccoli attenzione, sorveglianza e divertimento, e a chi lo gestisce un lavoro simpatico e gratificante.
E a proposito di mansioni inferiori alle proprie qualifiche, nella mia via ha lavorato per anni una giovane e graziosa netturbina laureata in lettere antiche, che si è guadagnata la vita senza tanti piagnistei in attesa di trovare un lavoro più adatto alle sue giustificate aspirazioni.
No, davvero, non mi sento in dovere di commiserare chi sa solo protestare senza far nulla per cambiare il suo destino: sarebbe ora che finisse l'era dei bamboccioni !
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