Ho visto il mostro arrivare dal cielo (e sparire con le cicale)

Ha un nome dolce e affabile, Irene, ma in realtà è un mostro. Non ho mai visto con i miei occhi una gigantesca cappa plumbea e minacciosa, nera come la pece che dall’oceano Atlantico ha avvolto il cielo di New York per ben sette ore, con raffiche di vento che flagellavano i grattacieli e gli edifici più bassi a una velocità di 120 chilometri orari. Tutto ondeggiava sotto la furia del vento, gli alberi, i semafori, come pendoli, i fili della luce e immondizia di ogni genere che andava a sbattere su muri e finestre. Una città fantasma che aveva smesso di vivere. Tutto chiuso e sbarrato, per strada neppure le auto della polizia. Sette ore in balia di Irene abbandonati a noi stessi.
Non ho mai vissuto sulla mia pelle e con i miei figli un fenomeno apocalittico come un uragano, che per trentasei ore ha vomitato una pioggia torrenziale. Non un minuto di tregua. Sembrava che un muro d’acqua cadesse dal cielo, non si riusciva a vedere più in là di cinque-sei metri dalle finestre del mio «rifugio», una palazzina di Washington Heights, quartiere a nord di Manhattan, vicino all’East River, ospite di un mio amico. Un cielo così sporco da dare l’impressione di poter inghiottire da un momento all’altro la metropoli più grande d’America e farla scomparire per sempre.
Come milioni di newyorchesi anch’io ho aspettato l’uragano, volevo vederlo in faccia. Dalle colline rocciose di Washington Heights, lo spettacolo era di paura e di angoscia. E, puntuale, Irene, 900 chilometri di diametro, ha iniziato a lambire le spiagge sabbiose di Brooklyn e quelle di Coney Island. La quiete prima della tempesta. Fino a pochi minuti prima, l’atmosfera e la temperatura di New York erano surreali, sembrava una classica notte di fine agosto: non un filo di vento, molto caldo e tanta umidità. Anche il cielo era limpido e quasi azzurro. Ma alle 3 del mattino dal mio «rifugio» si cominciava a intravedere questa gigantesca cappa apocalittica che avanzava lentamente prima su Brooklyn e il Queens e poi su Manhattan. Una pioggia sempre più fitta, che subito si è trasformata in una tempesta tropicale in un crescendo senza fine. Il vento soffiava sempre più forte, Irene, con il suo movimento antiorario, ha iniziato a spingere l’acqua dell’oceano nella baia di New York, che si è subito trasformata in catino. Da sotto il ponte di Verrazzano passavano onde alte due o tre metri, in meno di un’ora, hanno allagato il distretto finanziario di New York, quello di Battery Park.
Ma il peggio è toccato a Fulton Street, sotto il ponte di Brooklyn, la vecchia zona del mercato del pesce e alla circonvallazione Est, chiusa al traffico: acqua alta fino a due metri. Chiusi tutti i ponti, tranne il Washington Bridge, aperto per i soccorsi, con i i tunnel per il New Jersey allagati, tutte le autostrade e superstrade sono state chiuse al traffico. Con il lento e spaventoso arrivo dell’occhio dell’uragano sono cominciati i guai.
Interi quartieri, uno dopo l’altro, hanno cominciato a spegnersi restando al buio. Niente più internet e televisione, il telefono muto, il cellulare che funziona a tratti. Il centro dell’uragano arriva come un avvoltoio sul cielo di New York quando sono le 9 di mattina (le tre del pomeriggio in Italia), il vento raggiunge la massima intensità e sembra che da un momento all’altro tutti i vetri delle mie finestre possano finire in frantumi, sembra che le gocce d’acqua siano sparate dal cielo da una gigantesca mitragliatrice. È l’ultima minaccia di Irene, dopo mezz’ora di terrore l’uragano lascia Manhattan. Il peggio è passato, inizia una pioggerellina sempre meno fitta, poi tutto si calma, torna il sereno, il cielo si tinge di nuovo d’azzurro. Iniziano a cantare le cicale, incredibile, mai sentite in pieno giorno, significa che Irene è andata via con il suo carico di devastazione e di morte.

E New York ce l’ha fatta ancora una volta, miliardi di dollari di danni, ma tornerà bella come prima, sempre più affascinante. The show must go on: questa sera riapriranno i teatri di Broadway e forse i Mets giocheranno la loro partita di baseball. Il pericolo è passato, si torna alla base.

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