Huppert-Ardant, sfida a teatro Eros e psiche raccontano l’amore

Tournée italiana delle primedonne francesi. La musa di Truffaut recita in «Malattia della morte», quella di Chabrol nel cupo «Quartett»

Enrico Groppali

da Milano

Tutte e due sono di una bellezza nervosa e longilinea ma, nonostante vantino una prorompente femminilità, sia in scena che sullo schermo danno l'impressione di rifarsi alla «donna crisi» che andava di moda sulla Rive Gauche negli anni trenta. Tutte e due hanno diligentemente studiato recitazione nel tempio parigino delle attrici, il Conservatoire. Tutte e due, al cinema, hanno trovato un Pigmalione di gran classe perché se Fanny Ardant è stata la musa di Truffaut, Isabelle Huppert continua ad essere l'ideale androgino di Chabrol. Tutte e due hanno eletto la Callas a massimo mito del récit.
Ma con una differenza sostanziale. Perché se Isabelle fin nei minimi gesti ne ha studiato la tecnica quando ha impersonato Medea, Fanny non è stata da meno quando ha convinto Roman Polanski a dirigerla in Master class, uno dei più grandi successi del tout Paris teatrale degli ultimi anni. Logico quindi che adesso, da quando sono in Italia, la Ardant per una breve permanenza romana (ma in primavera si parla di un ritorno a Torino) e la Huppert per un ciclo di recite al Piccolo di Milano prima di un balzo verso il Sud, si instauri volenti o nolenti un duello a distanza tra queste due squisite primedonne. Che, guarda caso, hanno entrambe scelto per la visita nel nostro paese, due testi contemporanei di difficile lettura dedicati all'amore. Dato che Fanny è da anni un'adepta dei tragici amanti della Malattia della morte. Ossia il drammatico match tra il maschio e la femmina in cui Marguerite Duras descrive un amplesso dove i due contendenti del gioco amoroso tentano invano, oltre ai corpi, di sopraffarsi l'un l'altro impadronendosi del bene più effimero e prezioso in dotazione a un essere umano:la mente, se non addirittura l'anima. Mentre Isabelle, da tempo succube del fascino morboso delle Liaisons dangereuses, il capolavoro di Laclos da molti considerato la più cruda rappresentazione del sesso nel diciottesimo secolo, si è gettata a corpo morto sull'eccentrica riduzione scenica che, del famoso romanzo, ci ha fornito un drammaturgo di classe come il tedesco Heiner Muller. Con quali esiti? Vediamo.
Fanny entra in punta di piedi su un palco vuoto che ricorda la tremenda Place de Grève dove, durante la Rivoluzione, si ergeva l'ombra della ghigliottina. Sulla sinistra, un uscio gira lento sui cardini scoprendo di scorcio un letto disfatto. Poi la «signora della porta accanto» comincia a parlare del suo greve carico di dolore e di pena. Ma a chi si rivolge con quella voce bassa, a tratti roca come un'arpa scordata, a tratti insinuante come il tenue rintocco di un pianoforte? Lei, nel testo della Duras, rappresenta la morte. Che, rifiutando a priori di occuparsi della donna vittima dell'infame contratto che il suo compagno ha stipulato con lei in cambio di sei notti d'amore, penetra pigra e indolente nel gran corpo bianco che occupa quel letto di cui scorgiamo, a distanza, solo le lenzuola.Il predatore dei doni che regnano, ancora inesplorati, nel corpo femminile viene lentamente accerchiato da quella voce subdola e ossessiva che poco alla volta s'impadronisce del Signore del Piacere contagiandolo, squassandolo, prevaricandolo.
Basta un calice spezzato d'impulso al suolo col vino rosso che, come il sangue, si riversa in scena e il fumo accidioso che si sprigiona da un cigarillo assaporato ed espulso dalle sue labbra provocanti a decretare, nella fine del maschio, la morte delle illusioni. Nell'oscurità che, come un fitto tappeto di tenebra, pervade la platea quel frigido amplesso continuamente reiterato nella danza ossessiva delle parole diviene un sudario. E Fanny da araldo si muta sotto i nostri occhi in una tigre che, adocchiata la preda, si compiace di circoscriverla col suo sguardo, blandendola con lusinghe che le sue lunghe mani descrivono nell'aria in perfide carezze, lente movenze e rapidi soprassalti. Fino alla fine quando, come dice lei, sotto il glaciale riflesso della luna il sacrificio si compirà nel silenzio di un'eterna notte. Dal canto suo, Isabelle la grande rivale, nel mirabile Quartett messo in scena da un Bob Wilson in stato di grazia, si staglia gelida e altera in fluente tunica viola («il colore dei martiri cristiani», enuncia enfatica) dentro una nube tagliata a ics che pare una vasca. Il décor pastorale di zampogne e splendide nudità femminili che ci negava, all'inizio, la vista della scena lascia il posto a un telone da circo. Che presto si muta in un gigantesco sipario irto di tagli, virgole e punti intercalati da striduli rumori di fondo. Pretesi, scanditi, evocati da questa strega inquietante che, assunto il volto della corrotta marchesa, sfida il libertino Valmont di Ariel García Valdes a un gioco al massacro senza esclusione di colpi.
Ora Isabelle si tende spasmodica verso l’alto come se supplicasse una divinità infernale. A differenza di Fanny, rigida e immota come una colonna, Isabelle si getta nella vasca prorompendo in un’oscena risata di scherno. Non è più la marchesa: è diventata la Morte. Ma una morte che, provocando la rovina del complice, travolge al suo passaggio le immagini della trepida Cécile e dello stesso vecchissimo Laclos. Abbattendosi sardonica col braccio teso verso il pubblico Isabelle muore del proprio orribile languore come il più mostruoso dei demoni.

Mentre Fanny, al suo posto, si spegneva più esile e bianca di un angelo auspicando la resurrezione della carne.

LA MALADIE DE LA MORT - di Marguerite Duras. Regia di Bérangère Bonvoisin, con Fanny Ardant.
QUARTETT - di Heiner Muller. Regia di Bob Wilson, con Isabelle Huppert

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