Quelle tasse, le autorità del Nevada proprio non le vogliono incassare. Ma i proprietari dei bordelli insistono per pagarle. Tanto da aver arruolato alla loro causa un lobbista, George Flint, per fare pressione sui membri del Congresso dello stato. Il paradosso nasconde anche un escamotage: gli «imprenditori» delle case chiuse hanno paura che prima o poi le autorità del Nevada decidano di vietare la prostituzione legalizzata e, così, tentano di anticipare le mosse dell'avversario: se lo stato accettasse parte dei loro guadagni, in forma di tasse, sarebbe molto più difficile far chiudere i bordelli. Il paradosso I bordelli nel Nevada sono 25, tutti autorizzati soltanto nelle contee con meno di 440mila abitanti. Sono quindi escluse l'area di Las Vegas e di Reno. Uno degli obiettivi della battaglia è anche quello di estendere le autorizzazioni alle contee più popolose, allettando il governo con introiti milionari. Fino ad ora le case chiuse hanno pagato le tasse solo alle contee; allo stato versano una quota annuale di soli 100 dollari, per il rinnovo della licenza. L'azione di Flint vuole invece attirare l'attenzione su guadagni molto più sostanziosi, una parte dei quali finirebbe nelle casse statali e che potrebbero essere decisivi in un momento di crisi: i bilanci del Nevada sono in rosso di quasi 2 miliardi di dollari rispetto alle previsioni. L'idea è: oltre a turismo e gioco d'azzardo, perché non puntare anche sul sesso, sempre in piena legalità? Un punto su cui insiste anche Oscar Goodman, il sindaco di Las Vegas. Il bordello più vicino alla città è nella contea di Nye, a cento chilometri: per Goodman è un vero spreco di soldi.
«Stiamo gettando al vento decine di milioni di dollari di introiti che potrebbero essere generati da una tassa sui bordelli. Sappiano tutti che Las Vegas è piena di prostitute. Ma esercitano illegalmente la loro attività e la città non ricava un dollaro».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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