I cacciatori di virus del bunker anti H5N1

Il dottor Cattoli: «La psicosi? Bisognerebbe chiamare il Gabibbo»

Cristiano Gatti

nostro inviato a Legnaro (Padova)

Mentre il Paese fugge ululando davanti al petto di pollo, c'è un ristretto gruppo di imperturbabili italiani che tutti i giorni affonda le mani nelle carogne infette. La prima linea di questa sporca guerra è nelle campagne del Padovano, appena sotto il campanile di Legnaro. Qui, dentro le palazzine stile campus americano dell'Istituto Zooprofilattico Sperimentale, una quarantina tra veterinari, ricercatori e tecnici di laboratorio emette le sentenze sugli uccelli pietosamente defunti in giro per stagni e paludi. Ritmi forsennati, in questo periodo: ormai siamo al migliaio di analisi settimanali. Lavoro dalle otto di mattina alle dieci di sera, sabato e domenica compresi. Cigni, gabbiani, poiane, germani reali: interi o già fatti a pezzi, tutti all'Istituto per sapere di che morte sono schiattati. Secondo la rigorosa statistica, al momento l'aviaria ne conta sedici.
Strana atmosfera, in questo luogo. Dev'essere l'unico angolo d'Italia, praticamente una riserva indiana, dove l'aviaria non significa angoscia e isterismi. Il mio paziente cicerone, il dottor Giovanni Cattoli, responsabile del laboratorio, ha un'aria molto rassicurante. «La psicosi? Che le posso dire... Sabato ho comprato i petti di pollo e li ho cucinati per mia moglie e per la mia bambina. Non c'è veramente alcun motivo di temere il peggio: in Italia l'aviaria è ferma agli animali migratori. I nostri allevamenti sono protetti e sicuri...».
Cattoli è bolognese. Ha quarant'anni. Laureato in veterinaria, ha maturato esperienze in Olanda. Poi s'è vinto il suo bravo concorso ed è arrivato qui, nel Duemila. L'aviaria l'aveva di poco preceduto, a Legnaro: l'istituzione di questo dipartimento altamente specializzato, frontiera e prima linea a livello nazionale contro il famigerato virus, è del '98. «Da allora l'allarme è aumentato, e con esso anche il nostro lavoro. Al mondo, esistono solo sei centri di questo livello: tre in Europa, quindi Giappone, Australia, Usa. Spesso ci arrivano richieste anche dall'estero: è di poco fa l'esame per la Nigeria. Io sono un po' il notaio delle analisi: quando metto la firma, significa che il virus è ufficialmente scovato».
Dottore, la respira anche lei tutta questa paura in giro? «Purtroppo sì. Non si parla d'altro. Persino la mia bambina, la sera, mi chiede come stanno i polli. All'asilo, sapendo del mestiere che faccio, chiedono a mia moglie se è ancora il caso di dare il pollo ai bambini. Per carità, la richiesta d'informazioni è comprensibile. Qui però non sappiamo più come spiegarlo: il nostro pollo è sano. Anche solo perché lo mangiamo cotto. Non c'è alcun pericolo...».
Dai dati sulle vendite, gli dico, il pubblico non sambra credervi granché. «Penso ci sia diffidenza. Se lo diciamo noi, che siamo un'istituzione pubblica, in tanti pensano subito a chissà quale interesse sottobanco. Penseranno pure che abbiamo le azioni delle aziende avicole. I soliti sospetti all'italiana. Forse bisognerebbe mobilitare il Gabibbo, o le Iene, o qualche calciatore. Ormai la gente crede solo a loro...».
Questa non è male. E non è neppure una semplice battuta. Il problema dell'opinione pubblica che non crede più alle autorità è serio: magari, dati tanti precedenti, ha pure qualche giustificazione. Ma nel caso dell'aviaria stiamo effettivamente delirando. «Comunque - sorride Cattoli - non tocca a noi discuterne. Noi, all'Istituto, dobbiamo soltanto fare bene il nostro lavoro. Per quanto mi riguarda, vorrà dire che risparmierò sui prezzi dei petti di pollo...».
Ci addentriamo nei laboratori. La mia guida spiega i vari passaggi del lavoro: l'animale sospetto, o il campione dei suoi organi, arriva dentro contenitori a tenuta stagna. Quindi, passa sotto le mani dei tecnici di laboratorio, una quindicina in tutto. Sono loro, soprattutto donne, a trattare direttamente con l'H5N1. Per una prima risposta servono intorno alle quattro ore. Il test non costa neppure una cifra: intorno ai dieci euro. In caso di accertamento del virus, parte subito la comunicazione al ministero della Sanità, per il via ai piani d'intervento. Intanto, l'Istituto procede con ulteriori esami per inquadrare alla perfezione il nemico. «La velocità è fondamentale - spiega Cattoli -, per questo ultimamente siamo sotto pressione. Questa fase, presumibilmente, durerà fino all'arrivo della primavera: con l'esaurimento delle migrazioni, e con l'arrivo del caldo, i picchi dovrebbero cessare. Fino a nuovo allarme. Nell'attesa, speriamo arrivino presto i rinforzi promessi dal ministero...».
Nonostante il lavoro non sia dei più rilassanti, fuori dall'Istituto c'è la fila per essere arruolati. Neodiplomati, neolaureati, gente che arriva da altri centri. A guidarli non è certo il sogno di ricchezze inaudite: mettere mano nelle temibili schifezze frutta 1.200 euro al mese. Eppure c'è la fila fuori. Eppure chi sta dentro, magari da anni, ne parla con orgoglio. Gloria è una giovane mamma che lavora sull'aviaria dall'inizio, anno 1997. «Io capisco la gente che si informa. Capisco meno il terrore ingiustificato. Paura del mio lavoro? Ogni tanto ci penso, non è uno scherzo. Per questo mettiamo molta attenzione nelle procedure di protezione. Ma di certo non mi chiudo in quarantena. Meglio: ultimamente vivo in quarantena, ma per star dietro a mia figlia appena nata...».
Dalla radio accesa - tu guarda il caso - arrivano le notizie della Germania, con l'esercito schierato e tutto quanto il resto. Annalisa, Angela, Sabrina, tutte tecniche giovanissime, sorridono nascoste dalle divise lunari che proteggono il loro lavoro: «Lo sappiamo che genere di mansione ci tocca. Ma non per questo viviamo nel terrore. Basta stare attente. No, non abbiamo alcuna voglia di portare il lavoro a casa...». Cattoli le provoca con un sondaggio: «Sincere: quante di voi hanno abolito il pollo?». La risposta è una risata collettiva: «Buonissimo il pollo. Viva il pollo!».
Le saluto. Si fa incontro Gloria, mi porge la mano. Provi chiunque a mettersi nella situazione: stringere la mano a un tecnico che fruga tra le frattaglie dell'aviaria. Lei mi legge tutto sul volto. Sorride, forse di compassione: «Tranquillo, ho tolto i guanti. Io posso. Eviti le mie colleghe, che ancora li portano...». Ho i testimoni: la stretta di mano c'è. Anche se non posso evitare di sentirmi un po' codardo.
Fuori, nei corridoi, incontro la massima dirigente del centro: reduce da una riunione, sta partendo per Bruxelles, verso una nuova riunione. Si chiama Ilaria Capua, e nonostante molti media continuino a definirla «cugina di miss Italia», preferisco raccontarla come una giovane scienziata italiana, anche lei mamma da poco, fiera del ruolo, figura molto lontana dalla cultura pietistica delle quote rosa. È da anni in lotta contro l'aviaria, ma soprattutto contro i fantasmi e le paure superstiziose. «Faccio molti sforzi, ma non riesco a capire questo terrore generale. Purtroppo, ci sono già motivi sufficienti per preoccuparci: l'Iran che vuole la bomba atomica, i cristiani ammazzati nelle chiese. E noi qui, ad angosciarci con i cigni...».

Mi sembrano le parole migliori per chiudere la visita. Stringo la mano anche a lei. Ormai non ho più motivi di temere. Non c'è come vederli all'opera, questi cacciatori d'aviaria, per dissolvere qualche stupido spettro. E anche per sentirci tutti un po' meno ridicoli.

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