Se cè qualcosa di più abietto del terrorismo, è il terrorista che si assolve sostenendo che il suo non fu terrorismo, ma atto di giustizia. E che il terrorismo è altro, è «impiego oscuro e indiscriminato della violenza al fine di terrorizzare la parte supposta nemica e guadagnare a sé quella di cui ci si pretende paladini». Come se la violenza invocata e praticata da Adriano Sofri, perché è lui che ci ha afflitto sul Foglio con simili argomentazioni, non fosse stata quella. Precisamente quella. Se cè qualcosa di più abietto, di più esecrabile del terrorismo è il terrorista che si chiama fuori ammantando quella lurida cosa che è il terrorismo con i velluti e le porpore degli Ideali, dei Princìpi e dei Valori.
Eppure, Stato e dunque i cittadini sono stati assai generosi con Sofri, che è e rimane, ricordiamolo, un criminale, il mandante di un assassinio. Generosi sopportando, senza mandarlo a quel paese, le sue isterie da neo carcerato che denunciava le "torture" inflittegli: il divieto di introdurre in cella libri con la copertina cartonata, ad esempio. O, altro tremendo supplizio, la verifica, mediante battitura, dell'integrità delle sbarre. Generosi non negandogli la condizione di detenuto elitario, esentato dal dividere la cella con altri rozzi condòmini, mettendogli a disposizione gli strumenti necessari per comunicare con l'esterno e garantendogli piena libertà di ricevere amici giornalisti ai quali raccontare le sue prigioni. E la sua verità. Generosi nel concedergli, trascorsi appena otto dei 22 anni ai quali era stato condannato, dapprima la semilibertà, quindi la sospensione della pena e infine la detenzione domiciliare. Si aggiunga che gli è stato dato, e a josa, spazio sui giornali, spazio nei programmi televisivi affinché potesse tenere le sue melense, moraleggianti lezioncine sul perbenismo di sinistra. Di fronte a tanta disponibilità, a una tale larghezza di manica, ci si aspettava che a bocce oramai fermissime il criminale desse un cenno di pentimento, magari un semplice, fugace chinare il capo al cospetto di Gemma e Mario Calabresi che lui rese vedova e orfano. Non venne, quel cenno, e pazienza: l'uomo è fatto così, altezzoso, insolentemente pieno di sé.
Ma non creda, Adriano Sofri, di permettersi impunemente l'ultimo lusso, quello di far quadrare il cerchio degli anni di piombo, quello di derubricare il terrorismo, la lotta armata, l'eversione, le P38, le spranghe e le chiavi inglesi a semplice «distorsione di cose», a una svista nel corso di una missione redentrice e «di giustizia». Perché questo intende fare Sofri sostenendo che i terroristi tutto erano meno che «persone malvagie». Sostenendo che il terrorismo non era terrorismo, essendo tale solo quello di Stato. Sostenendo che la lotta armata fu, semplicemente, «l'azione di qualcuno che, disperando nella giustizia pubblica e confidando sul sentimento proprio, volle vendicare le vittime di una violenza torbida e cieca» della sbirraglia. Sostenendo che i compagni delle Brigate rosse e di Lotta continua accoppavano sì gente, però a fin di bene, col cuore in mano, «mossi dallo sdegno e dalla commozione per le vittime». Quello che farneticando chiede Sofri è, in ultima analisi, una cosa che lascia sgomenti: che sia Mario Calabresi a chiedergli scusa, a dirsi pentito per non aver capito che l'assassinio di suo padre fu solo una «distorsione», il danno collaterale di un processo salvifico, di un moto ideale, di una giusta causa, di quel desiderio di «cambiamento» ben sintetizzato dal democratico slogan «Fascisti, borghesi: ancora pochi mesi».
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