Politica

I censori illuminati

La galleria dei dolenti si allunga: dopo Santoro, dopo Luttazzi, dopo Biagi, anche Pierluigi Diaco si incammina verso un luminoso futuro da eroe e da martire. Eroe della libertà, martire della censura. Come i suoi illustri predecessori, ci metterà su un'azienda, praticamente il miglior affare della vita, dato che in Italia questo mestiere garantisce vitalizi e rendite per diverse generazioni.
Rispetto alle tre storiche icone dei girotondi, Diaco si porta dietro però due enormi differenze. La prima: è molto meno famoso. Praticamente, un conduttore di nicchia. Amato dagli ambienti chic e modaioli più che altro per le sue origini leggendarie: ragazzotto qualunque, entra in una radio e sbanca subito gli ascolti con lo stile disinvolto e disinibito, al solo servizio della libertà. Da lì in poi, anche grazie all'investitura nobiliare di Giuliano Ferrara, che come noto trasforma in intellettuale chiunque sfiori, il carrierone è travolgente. Non si può dire manchi il lavoro, al giovane Diaco: da una radio all'altra, passando per il Foglio, fino all'attuale programma personale su Rainews 24, brutalmente interrotto a metà pomeriggio di ieri. Ma è proprio qui che emerge la seconda differenza rispetto alla trimurti dei grandi censurati di Stato: Diaco non è vittima di Berlusconi. La cosa suonerà sinistra agli illuminati del mondo libero, ma il conduttore emergente, ora disoccupato di grido, è vittima di un direttore insospettabile: Roberto Morrione, noto nel mondo politico come ex portavoce di Romano Prodi. Tutto si potrà dire dell'uomo, non che è un reggipancia della destra becera. Eppure, dopo alcuni avvertimenti, anche dalla sua scrivania è partito il licenziamento, benché mascherato da sospensione. Chiamarla censura? Su, non travisiamo. Come spiega un comunicato, il provvedimento trova la sua motivazione in alcune «affermazioni calunniose, denigratorie ed eticamente scorrette del conduttore, lesive dell'immagine aziendale» e bla-bla e bla-bla. Insomma, le motivazioni che se fossero addotte per licenziare un Luttazzi o un Santoro diventerebbero motivo di scandalo nazionale.
Adesso non è chiaramente il caso di star qui a pesare avverbi e aggettivi di Diaco: da sempre dipinto, anche e soprattutto a sinistra, come libera voce al libero servizio della libertà, cade più che altro per la puntata dell'altra sera, quando s'è permesso di parlare della Sicilia, delle sue piaghe, dello storico duello Caselli-Andreotti. In studio, un'altra emergente di questo Paese d'emergenti, l'ormai famosissima avvocato Giulia Buongiorno, difensore di Andreotti nello storico processo. Riduttivo però concentrare su questa puntata i motivi del nuovo caso. Tra Morrione e Diaco, la guerra dura da molto. E l'epilogo era già nell'aria da sempre.
Il problema, ora, non è certamente il futuro di Diaco: il tizio ha già avuto tutto dalla vita, certamente qualcosa oltre i suoi effettivi meriti. Con quest'altra medaglia - la censura - il suo futuro è assicurato. Da anni gira per l'Italia una fortunatissima coppia di vittime, la Guzzanti&Travaglio, che tra libri, spettacoli itineranti e comparsate varie s'è acquisita una poderosa fetta di mercato. Basta che Diaco impari il mestiere. Il piagnisteo già avviato nelle ultime ore dimostra che i numeri li ha.
No, non è del licenziato che bisogna parlare, ma del licenziamento. Fino all'altra sera, se la memoria non inganna, questa era la nazione dove un cantante con ambizioni da prevosto ha preteso e ottenuto, tra gli applausi generali, di dire quello che voleva, quando voleva, contro chi voleva, diventando per acclamazione il nuovo garante della libertà. E al direttore della sue rete, che chiedeva eventualmente di esercitare un modesto ruolo da direttore, hanno tutti dato del trinariciuto servo zerbino.
Ancora: fino all'altra sera, se la memoria non inganna, questa era la nazione dove la destra volgare e barbara tappava la voce ai cavalieri della libertà in nome e per conto del dittatore al governo. Santoro, Biagi, Luttazzi, più la premiata ditta Guzzanti&Travaglio: tutti zittiti dal regime, tutti simboli da rimettere sul piedestallo alla prossima vittoria elettorale.
Era una nazione perfetta, fino all'altra sera, per i maestri della libertà e della democrazia. Di qui il bene, di là il male. Di qui i liberi, di là i censori. Adesso, però, Diaco. Cacciato da un direttore della parte giusta. Allora, cosa fare. Ci penseranno, ne discuteranno, qualcosa inventeranno. Qualcosa del genere si può tranquillamente leggere nella «Fattoria degli animali». A naso, la soluzione è elementare: Diaco sparisce, però nessuno la chiami censura.

Da domani, la parola censura sparisce dai vocabolari.

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