Ma i «colonnelli» insistono: serve più democrazia tra di noi

Continua a non convincere l’idea dello schieramento unico. Il ministro Alemanno: «Siamo troppo radicati per scomparire»

da Roma

Poche sono le certezze eppure molto sembra scontato, alla vigilia dell’Assemblea nazionale di An. Questo è l’apparente paradosso di un partito alla ricerca di identità, nel quale grande è lo sforzo di restare assieme, ma dove l’unico punto di equilibrio possibile è ancora rappresentato da Gianfranco Fini. Paradosso nel paradosso, proprio il capo che molti dei colonnelli hanno trascinato sul banco degli accusati. A detta di uno di essi, il ministro Gianni Alemanno, che gli ha parlato con schiettezza nell’ultimo Consiglio dei ministri, «nell’assemblea Gianfranco cercherà di dare una risposta a tutti i nostri quesiti...».
Allora che «parlamentino» a porte chiuse sarà, quello che oggi verrà ufficialmente convocato per sabato e domenica prossimi all’hotel Ergife di Roma? Gli ultimi movimenti di truppa raccontano di una sostanziale convergenza sul centro unitario. Appunto, Fini. Il ministro Matteoli, possibile «coordinatore unico» in considerazione della sua fedeltà al leader, ribadisce che la posizione del presidente di An è «indiscutibile». Anche Alemanno sembra considerarla tale, quando ammette che «le colpe della crisi di An non sono solo di Fini, ma dell’intera classe dirigente». Segno evidente che il problema in realtà non sta nelle prese di posizione «sconcertanti» del leader, tipo quella sul referendum, quanto nella sua debolezza a gestire il traffico correntizio. Nel disorientamento della base si sono inseriti i colonnelli contrapposti, riuscendo a ritagliarsi maggior potere. Un’impasse dalla quale Fini potrebbe uscire con un colpo a sorpresa, oppure con una scelta meditata. Quella che tutti si attendono è la gestione collegiale del partito, una sorta di esecutivo allargato e riunito con frequenza finora impensabile. A quel punto, forse, anche il coordinamento unico affidato al fedelissimo Matteoli potrebbe essere accettato.
Però è anche chiaro che la partita maggiore, quella sui contenuti, sarà rinviata a un congresso programmatico da tenersi in autunno. In particolare, ci sarà da fare i conti con la componente cattolica che, rivela il ministro Alemanno, soltanto «grazie alla nostra attività di mediazione e con il documento di Mantovano» è stata trattenuta in An. Le difficoltà del partito, secondo Alemanno, hanno avuto nel referendum, nell’incapacità a «gestire l’evoluzione della nostra identità in rapporto all’evoluzione della società italiana», un punto fondamentale. Altra difficoltà è stata quella di «sviluppare un progetto da proporre e mediare con gli alleati, finendo per assumere un ruolo subalterno». Infine, una carenza di democrazia interna che, con il «coinvolgimento nel governo ha finito per allontanarci troppo dai nostri iscritti».
Analisi impietosa che, se dovesse corrispondere al dibattito nell’Assemblea di sabato, rischierebbe davvero di mettere in crisi la leadership. Eppure, nonostante la disponibilità di Alemanno a rinunciare alla poltrona da ministro pur di assumere quella di capo del partito, nessuno scommette un soldo su una possibilità del genere. Anche se il ministro Storace insiste su una figura che «si occupi a tempo pieno del partito» e se la prende con certi «diktat degli onorevoli Eccetera, che ci dicono dove dobbiamo andare e cosa dobbiamo fare, e poi vanno ad applaudire Rotondi che vuole rifare la Dc». Allora l’alternativa che si profila in concreto sembra piuttosto quella del «partito unico» di Berlusconi, specie nel caso di un «passo indietro» del premier e di «primarie» che agli uomini di An piacciono non poco. Ma in questo ambito prevalgono le forti resistenze di tutte (o quasi) le componenti di An, partito che, ricorda ancora Alemanno «è radicato nel territorio e anche se ci saranno cataclismi nel mondo politico italiano, ci sarà sempre».

L’orgoglio post-missino, secondo il quale «il partito unico non serve a nulla se è solo un modo per An di fuggire dai problemi», è proprio l’antidoto che dovrebbe alla fine ammaliare tutti verso Fini. Con la speranza recondita, in qualche colonnello malizioso, che il leader «si trasformi in quello che è sempre stato, uno speaker di lusso».

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