I critici seri sono peggio degli altri

Va bene che la critica militante è quella che è, ma non ci sarà solo quella, si spera. Fuori dal demi-monde giornalistico deve esistere una critica accademica, non militante. O no? Quella dura e pura e cazzuta e forse magari pure incazzata, deve esserci per forza. Insomma, la critica oggi non sarà solo quell’orribile giostra di Cortellessa, Berardinelli, Onofri, La Porta, Barilli e compagnia brutta?
In teoria, come ultima speranza, negli atenei si studierà ciò che merita di essere studiato, non certo i romanzini prodotti con lo stampino, sfornati dall’industria editoriale e già premiati dai premi, dai Campielli, dai Mondelli e dagli amici della domenica dei lunghi coltelli, giusto? Così, mentre ricevo una bella lettera di Flavia Fratello, brillante giornalista conduttrice di Omnibus Life su La7, che mi ringrazia per averle spiegato, nel mio ultimo libro, la differenza tra uno scrittore e un non scrittore («Hai fugato, se mai ve ne fosse stata realmente da parte mia l’intenzione, ogni velleità di trasformare la mia vita in un romanzo, o peggio ancora quella di un altro», illudendomi di aver scritto un libro utile: educarne una per colpirne cento), sono sprofondato nel volume di Maurizio Dardano Stili provvisori (Carocci). Dove si analizza «La lingua nella narrativa italiana d’oggi», per cui l’ho letto con molte aspettative, sperando che non essendo militante, essendo stato un docente e un Accademico della Crusca, facesse piazza pulita, macché. Nel suo genere, tuttavia, il saggio dardanesco è una lettura da brivido, un horror da fare concorrenza a Stephen King. Accadono cose pazzesche: per esempio la Mazzantini viene stroncata per «l’alto tasso di disfemia, non controbilanciato da toni ironici», ossia perché «nel lessico appaiono numerose scelte incongrue», come dove ha scritto: «Papà resta a guardarmi con quella faccia sciancata di cui adesso conosco l’origine. Lontana come l’uomo de L’urlo di Munch». Ecco, osserva Dardano, «la scelta dell’aggettivo e la menzione, in questo contesto, dell’opera più nota dell’artista norvegese lasciano perplessi». Boh, perché? Se invece avesse citato un quadro meno noto di Munch andava bene? Prima di Dardano non avrei mai pensato di difendere la Mazzantini, dopo Dardano sì, anche perché, con questi criteri, risultano al contrario molto «congrui» autori come Scurati o Ammaniti o Saviano o la Vinci, sembrano quasi Gadda.
Mi sono chiesto se il professore avesse letto lo stesso libro di Scurati che ho letto io, visto che il polpettone kitsch per casalinghe iscritte a corsi di Arte&Letteratura Una storia romantica diventa un romanzo pieno di aulicità («l’aulicità non è attenuata dagli occasionali localismi»), nel quale «a una sintassi ben costruita corrisponde un lessico vario, talvolta ricco e esuberante» (ma dove?) e il tono resta sempre alto. Un esempio di tono alto? «Una scatarrata di saliva mista a tabacco da fiuto le schizzò in faccia». Come se scatarrasse sull’Urlo di Munch della povera Mazzantini. E poi, scatarrata di Scurati o meno, che criterio è, il tono alto? Dove siamo, a Versailles nel XVII secolo? Anche Piperno, attenzione, ha scritto un romanzo ricchissimo, nel quale «l’escursione tra diversi tipi frasali è notevole ed è un’altra prova di uno stile duttile, adatto a riprendere personaggi e situazioni piuttosto diversi tra loro. In particolare va notata l’escursione nel campo della sintassi del periodo...» e ovviamente anche qui, come Scurati, «il lessico, ricco e variegato, oscilla tra il polo basso del gergo e della disfemia e il polo alto dei letteralismi; ed è un lessico adatto allo spirito beffardo dell’autore».
In questo turbinio di escursioni in tipi frasali e disfemie e poli variegati sappiate che, sebbene Con le peggiori intenzioni narri di «cerimonie, riti di società, abitudini, snobismi, schermaglie, antagonismi» è opportuno precisare quanto sia «fuori luogo ogni accostamento a Proust, sommariamente evocato da qualche commentatore», e meno male ce l’ha detto, e però non si sa perché, a questo punto, è fuori luogo, forse Proust era meno disfemico di Piperno, o scatarrava su Van Gogh. In Roberto Saviano invece «segmenti frastici brevi, isolati dalla punteggiatura (si tratta per lo più di monoremi) ricorrono di frequente; ma a differenza di Genna, Saviano non ricorre all’accapo». Non ricorrendo all’accapo, può sprigionare quindi tutta la sua «perdurante istanza conativa fondata sulla qualità dell’enunciazione, il ritorno circolare dei motivi, la metaforicità mirata a un fine civile».
Anche Stabat Mater di Tiziano Scarpa è un mezzo capolavoro, senza le istanze conative e civili di Saviano, più racconto di formazione che prosa d’arte, ma un’opera su cui riflettere per pagine e pagine, con un dialogo molto privo, «privo di interiezioni, di deittici, di tratti asemantici, non è introdotto da didascalie o da formule, ma si fonda su un’attenta impaginazione», pensate cosa scriverebbe Dardano sull’elenco del telefono. In Simona Vinci i «dialoghi mescidati, accompagnati da gesti, esprimono solidarietà e collaborazione», in Paolo Giordano «colpisce la varietà delle proposizioni avverbiali presenti in molte pagine del romanzo» e anche di «interiezioni come: chissenefrega, uao, okay», per cui alla fine «realizza una letterarietà priva di sperimentalismi e autoriflessioni (come accade invece nella narrativa di Scurati) e può rappresentare un termine di confronto per altre scritture dominate dall’espressività e troppo inclini a mode correnti».
Nel libro di Dardano, senza farla troppo lunga, c’è tutto il mainstream italiano, da Lucarelli alla Fallaci, da Cavazzoni a Starnone, da Del Giudice a De Cataldo, ed è un saggio esemplare, emblematico, oserei dire aulicamente paradigmatico.

Scopriamo tutto un mondo di capolavori nascosti alla luce del sole e delle classifiche di vendita, e prendendo Dardano come illustre rappresentante della critica accademica, quella seria, quella non militante, quella non vanitosa, quella che studia, ci si rende conto che i tagli all’università sono sbagliatissimi: per fare la rivoluzione culturale occorre uno spirito francese d’altri tempi, ci vuole una ghigliottina, la meno metaforica, la meno disfemica possibile, e via.

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