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I diktat di Fini al Cav per salvare il governo. Ecco la lista-capestro

Le condizioni irricevibili: epurazione degli ex colonnelli, bavaglio al "Giornale" e la "grazia" per i fuoriusciti di Fli

I diktat di Fini al Cav per salvare il governo. Ecco la lista-capestro

Roma - Mettere il bavaglio a Giornale e Libero che tanto gli stanno facendo male in termini di consenso; fare un clamoroso mea culpa sulle ragioni dello strappo che poi hanno portato alla nascita dei gruppi autonomi; graziare i dissidenti Granata, Briguglio e Bocchino stoppando qualsiasi decisione del collegio dei probiviri; offrire su un piatto d’argento la testa dei suoi ex colonnelli in primis La Russa e Gasparri; resettare le quote del 70 e 30 visto che in quel trenta ci sono anche ex aennini oggi berlusconiani di ferro come Matteoli e altri; punire gli ex An che, ai suoi occhi infedeli, non l’hanno seguito; affossare il federalismo e rompere con Bossi; ridimensionare il ruolo di Tremonti. Ecco le condizioni-capestro che il presidente della Camera vuole porre a Berlusconi per non staccare la spina al governo.

Ufficialmente la linea finiana è quella di minimizzare le nostre inchieste. In realtà il pasticcio della casa di Montecarlo, le pressioni sui dirigenti Rai per favorire i parenti, gli aiutini nei confronti del costruttore della cricca e i suoi imbarazzati mutismi hanno colpito duro Fini. I sondaggi di fine agosto lo danno in picchiata: ecco perché la brusca frenata sul discorso di Mirabello nel quale, inizialmente, si doveva annunciare la nascita di un partito. Tutto rimandato, presumibilmente a novembre. Ipotesi, questa, ventilata anche da Urso: «O Berlusconi ricompone la frattura o il nuovo partito sarà inevitabile». Più in là, però. Quando i sondaggi si spera tornino a sorridere ai futuristi. Ed ecco spiegata anche l’esultanza all’esito del vertice di villa Campari nel quale Berlusconi e Bossi hanno allontanato l’ipotesi di elezioni anticipate. La parola d’ordine: prendere tempo.

L’altra condizione è salvare i suoi falchi, annullando qualsiasi ipotesi di sanzione nei confronti degli eretici Bocchino, Briguglio e Granata: le teste più calde che potrebbero far scivolare la situazione verso lo strappo definitivo. Tenere tutti insieme, falchi e colombe, e abbassare i toni, seguendo il suggerimento dato a suo tempo dal moderato Menia: ventilare l’ipotesi di una federazione tra Pdl e Fli aspettando tempi, ma soprattutto sondaggi, migliori. E poi regolare i conti coi vecchi amici: vendicarsi, cioè, degli ex colonnelli rimasti fedeli al Pdl. Un po’ per questioni affettive visto che, ai suoi occhi, hanno tradito storie e percorsi comuni; un po’ per ragioni più terra terra: sono proprio gli ex An che non hanno condiviso il suo strappo a rivendicare i cosiddetti «beni di famiglia». Che comprendono denari ma soprattutto un patrimonio immobiliare di inestimabile valore.

E poi Bossi e la Lega: consapevole che il motore della sua macchina è a trazione meridionale, visto che dei 44 finiani solamente 13 provengono dal Nord, Fini ha tutto l’interesse a contrastare il federalismo che obbligherebbe il Sud a mettere a posto i propri conti. Chiaramente con sacrifici che poi nelle urne pagherebbero anche i Briguglio, gli Scalia, i Patarino, gli Urso. Fini, inoltre, non ha mai potuto vedere Bossi, soffrendo il rapporto stretto con il Cavaliere fin dai tempi dei celebri incontri del lunedì. Per non parlare di Tremonti, altra pedina che Fini vorrebbe spazzar via esattamente come fece nel 2004 quando, da vicepremier, ne ottenne la defenestrazione. Episodio che il superministro dell’Economia non ha mai dimenticato e per via del quale spera ancora di fargliela pagare cara, magari con gli interessi. A ciò si aggiunga il rapporto quasi simbiotico che Tremonti ha con il Carroccio che Gianfranco sogna da sempre di far deragliare.

Queste, in sostanza, le inaccettabili richieste di Fini la cui mission resta una sola: far fuori politicamente Berlusconi con una strategia che definire spietata è poco. Perché oggi il presidente della Camera sembra dire al plotone giudiziario che sta mirando al petto dell’odiato Cavaliere: «Sparate pure che tanto io lo tengo fermo». Il giubbotto antiproiettile, che si chiama processo breve, il premier non ce l’ha ancora e Fini non vuole certo concederglielo. Men che meno gratis. Con un vantaggio in più: se per miracolo i rapporti col premier dovessero rasserenarsi; se nel Pdl prevalessero le ragioni delle colombe più inclini a una trattativa; se riuscisse a guadagnare tempo per organizzarsi meglio sul territorio e soprattutto far dimenticare i pasticci monegaschi (ma non solo), in cui si trova, Fini avrebbe un altro jolly: Napolitano.

Arbitro silente per ragioni istituzionali, potrebbe essere proprio il Colle a ratificare l’esecuzione del premier rinviando alle Camere il provvedimento sul processo breve. Con o senza l’appoggio del presidente della Camera cui, in fondo, basta solo aspettare un po’. Il conto alla rovescia è già iniziato e la fucilazione s’avvicina.

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