I dubbi della contea che decide i presidenti

REPORTAGE / Lincoln County ha indovinato gli ultimi 12 vincitori: chi è primo qui conquista la Casa Bianca. Incognite: questa volta domina l'incertezza. Il vecchio John non piace, Barack non convince

I dubbi della contea che decide i presidenti

Troy (Missouri) - Carmen Cortelyou è una bella signora di 60 anni, il volto dolce, le maniere eleganti. È un'indipendente, ma quest'anno ha deciso non solo di votare per Obama, ma di battersi per lui e si è iscritta come volontaria nel quartier generale del Partito democratico a Troy, capolouogo della Lincoln County, nel Missouri. Un posto sperduto in pieno Midwest. Tutt'altro che bello, per nulla affascinante. Lungo Main Street, la strada principale, si affacciano il municipio, il Tribunale, sorvegliato da un poliziotto intontito, tre squallidi negozi di mobili, una lavanderia, una gioielleria, una banca. Gli edifici sono vecchi, decadenti, con le facciate slabbrate, come la maggior parte delle case nei dintorni, tutte monofamiliari in legno usurato, bianche o grigie; con i giardini trascurati. Insomma, una località da sconsigliare.

Eppure questa è la contea che da sessant'anni azzecca il nome del Presidente, chi vince qui conquista la Casa Bianca. Il fiuto dei suoi elettori è infallibile: hanno fatto centro dodici volte su dodici, sebbene la popolazione non rispecchi quella nazionale. Al 95% è bianca, per la maggior parte rurale, il costo della vita è del 20% più basso rispetto al resto del Paese.

Carmen Cortelyou è entusiasta, come tutti i sostenitori di Obama. Crede alla promessa di un cambiamento radicale, sogna un'America diversa, ragionevole come quella della sua gioventù ed è avvilita dalla situazione economica. Ieri i sondaggi a livello federale davano il candidato democratico in fuga, a più 7,4% secondo la media di Real Clear Politics, con punte del 10% (Zogby) e 14% (Pew). Carmen dovrebbe essere contenta, tanto più che appena due settimane fa il settimanale Time aveva riscontrato, proprio qui a Troy, un netto spostamento dei consensi a favore del senatore dell'Illinois. Ma i suoi occhi azzurri sono velati di inquietudine. Il vento nella Lincoln County è girato. Lei arriva in sede al mattino presto, se ne va a pomeriggio inoltrato; ogni giorno telefona a decine di persone. Ha il polso della situazione ma, con grande onestà, ammette: «Obama e McCain sono testa a testa».

Più passa il tempo e più aumentano le riserve di questo spicchio d'America, che per ottant'anni ha votato per i democratici conservatori e che da venti preferisce i repubblicani. Gente semplice, metodica, tutta casa-chiesa-lavoro, che ama trascorrere il tempo libero andando a caccia o restando per strada a chiacchierare con i vicini.

Entriamo da Stefanina's, una pizzeria fondata da un'emigrata italiana, dove tutto è rimasto come trent'anni fa: le sedie di plastica, i candelabri finti, i quadri kitsch. Ci avviciniamo a una coppia sui 50 anni. Lui ha i capelli lunghi, raccolti a coda di cavallo, il volto quadrato, i modi un po' hippye. Dall'aspetto sembra di sinistra e invece no, contrariamente all'Europa dove l'abbigliamento e i modi permettono spesso di indovinare l'orientamento politico, qui l'aspetto non è indicativo, anche perché sono tutti vestiti male: jeans, t-shirt, donne senza trucco, uomini spesso con il camicione da boscaiolo a scacchi. Jim O'Hare è un repubblicano e voterà per McCain «perché è una brava persona e un eroe di guerra». Lei, Maureen, molto sovrappeso come la maggior parte delle donne del posto, è indecisa. Il vecchio John non la entusiasma, ma il giovane Barack non la convince: «Penso che non abbia l'esperienza per governare il Paese». Tento un piccolo sondaggio. Su dieci commensali, solo tre scelgono Obama, come Greg Schmidt, commerciante, che non ne può più di Bush. È bene informato e parla un inglese raffinato, rispecchia l'orientamento dei laureati, di quella borghesia cittadina, che vive a Troy ma lavora a St. Louis, cento chilometri più a sud. Pendolari di un benessere ridimensionato più dal prezzo della benzina che dalla crisi dei mutui subprime, visto che i prezzi delle case qui sono da sempre ragionevoli.

Altri tre avventori si schierano per McCain, ma ben quattro sono in bilico. Barack ha quel «non so cosa» che disturba. Razzismo? In parte sì, soprattutto tra i più anziani. Esco dal ristorante e in una via laterale incontro il signor Harry, 90 anni - cappello di paglia in testa, appoggiato a un bastone - che afferma senza remore: «Non voglio un negro alla Casa Bianca». Eppure per la maggior parte dei cittadini, anche tra i repubblicani, il colore della pelle è ininfluente. Esistono altre ragioni.

Ci spostiamo nella zona commerciale, composta dal solito supermercato Wal Mart e dai solti McDonald, Wendy's, Taco. I passanti si fermano volentieri a parlare. Molti sulla quarantina si dicono delusi dall'involuzione di Obama, che in primavera faceva sognare, mentre ora appare come un politico tradizionale, prudente, votato al compromesso. «L'establishment lo ha già inghiottito», sentenzia Franck Penn, manager di una piccola azienda, che, turandosi il naso, voterà per McCain. Sua moglie annuisce, mentre sale su un fuoristrada. La sfiducia nei partiti è diffusa; la gente si sente tradita e si rifugia ancor di più nella religione, il che apre un altro fronte, morale.

Ancora una volta è l'aborto a provocare lacerazioni, anche tra i cattolici moderati, che qui sono maggioritari. È giusto votare per Obama anche se è favorevole all'interruzione di gravidanza? La mente dice sì, il cuore no.

«Domenica due novembre, a 48 ore dal voto, le chiese saranno più affollate del solito», prevede un giovane. Molti aspetteranno lumi dal sacerdote. A Lincoln County, la contea che non sbaglia mai.
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