
"Nel turbolento Medio Oriente ci sono state poche isole di stabilità politica in grado di resistere alle tempeste rivoluzionarie. L'Iran è da sempre visto come la più importante tra queste oasi". Così scriveva nell'autunno del 1978 Foreign Affairs, forse la più prestigiosa rivista dedicata alle questioni internazionali.
Pochi mesi dopo, nel marzo del 1979, Khomeini proclamava la repubblica islamica: un Paese all'apparenza avviato a una modernizzazione accelerata precipitava in poche settimane nel Medio Evo. Lo stesso accadde più o meno nello stesso periodo al vicino Afghanistan, dove negli anni '70 le donne indossavano gonne all'occidentale e la gioventù beat di mezza Europa andava a caccia di avventure esotiche. Un cortocircuito tra decolonizzazione, urbanizzazione e re-islamizzazione estremistica che è ancora oggi oggetto di studio nelle università.
Cose da professori, certo. Ma di sicuro nelle corrispondenze di Egisto Corradi del novembre del 1978, gli elementi che avrebbero cambiato l'Iran ci sono tutti. "La cronaca, questa microstoria, è la materia prima del giornalismo", scrisse in un'occasione lo stesso Corradi. "Anche tutto il resto che c'è su un giornale- o quasi tutto- è giornalismo. Ma la cronaca, ossia il fatto, ne è la vera essenza".
Nei confronti dei fatti Corradi aveva un rispetto sacrale. Per farsi assumere al Corriere della Sera, nel 1945 si era unito a una banda di contrabbandieri e aveva raccontato le loro storie. Poi aveva seguito di persona i migranti clandestini che attraversavano il Piccolo San Bernardo. Da lì era iniziata una carriera che l'avrebbe portato a seguire guerre e vicende di ogni angolo del mondo. Prima per il giornale di via Solferino, poi dal 1974 e fino alla morte nel 1990 per il Giornale.
Classe 1914, esordi alla Gazzetta di Parma, nella seconda guerra mondiale Corradi era finito da ufficiale sul fronte russo.
Vent'anni dopo il suo ritorno, nel 1964, ne aveva ricavato un libro, "La ritirata di Russia", resoconto dettagliato e allo stesso tempo monumento costruito con dolore e sobrietà a ricordo dei tanti compagni morti. Insieme alle migliaia di articoli scritti in carriera è la migliore testimonianza di uno dei più grandi inviati della storia del giornalismo italiano.