I fratelli Cauteruccio scoprono Jarry

Enrico Groppali

Se fossimo obbligati a narrare per filo e per segno come è stato messo in scena nel teatro italiano un testo anomalo e affascinante come Ubu Re concepito sui banchi di scuola da quel mattacchione di Alfred Jarry riceveremmo - poco ma sicuro - una nota di demerito da parte dei lettori.
I quali, di fronte alle nostre riserve, giustamente ci chiederebbero: «Possibile non vi vada mai bene niente? Eppure quel copione ha sempre attirato, come le mosche al miele, i teatranti più eccentrici del nostro Paese… e poi come la mettete con Peter Brook che, tempo fa, approdò proprio a Milano narrandoci con allarmante disinvoltura le avventure e le sventure del grand’uomo dalla candela verde?»
Tutto vero, intendiamoci, e tutto condivisibile ma a patto - e non è poco - di sottovalutare l’intrinseca difficoltà rappresentata da una pièce paragonabile agli aculei di un porcospino per colpa delle allusioni, degli scherzi sulfurei, dei mostruosi capricci linguistici e dei funambolismi vocali che la apparentano a volte a un gadget (ma scritto in albanese) e a volte a una striscia a fumetti dei Flintstones.
Stavolta invece c’è andata bene. Al CRT-Teatro dell’Arte di viale Alemagna va infatti in scena da stasera al 5 febbraio Ubu c’è, un’edizione con tutti i crismi dal testo di Jarry firmata da Giancarlo, il maggiore dei due Cauteruccio (l’altro è Fulvio, l’attore).
I due intrepidi fratelli han fatto propria la lezione di Tadeusz Kantor ammannendo per noi tutti gli ingredienti del gran paté nato nella mente dell’autore mentre dipingeva come Gian Burrasca sul colletto inamidato dei compagni il profilo a tutto tondo degli insegnanti.
Si comincia, come nella Classe morta del famoso regista polacco, con una carrellata che riprende in un’aula disadorna i ragazzi terribili del liceo di Rennes una volta tanto prigionieri di un contenitore a forma di balena prima di tramutarsi in un mostruoso macchinario e, alla fine, nella prua di una nave.
Il ventre di legno dove il terribile Padre Ubu, inseguito dai contadini impoveriti dalla feroce tassazione imposta dal sedicente sovrano, cerca rifugio dall’ira del popolo.
Mentre dagli altoparlanti risuona nella cavea la voce stentorea di Apollinaire a tratti, quando meno te l’aspetti, da un video ammonisce contro l’orrore della guerra Jean Baudrillard, il più fedele patafisico vivente. In questa opera al nero in cui gli acciacchi del tempo e lo splendore della giovinezza sono accadimenti arbitrari la mimica stravolta di Fulvio Cauteruccio fa scuola moltiplicando prodezze e capriole a volontà, sfoderando dalle maniche lunghissime braccia da trampoliere e dita che si tendono, più adunche degli artigli, verso una platea più divertita che sbigottita.
Accanto a lui Alida Giardina, la terza Madre Ubu delle scene italiane dopo Rosalina Neri e Marisa Fabbri, truccata come un vampiro di Leonor Fini, straripa dal banco facendo boccacce al pubblico mentre i suoi grandi occhi verdi da sirena troppo cresciuta sprizzano languidi inviti.


Su tutto poi domina il ferocissimo Merde! scandito dagli allievi contro l’idiozia di un’istruzione che li umilia invece di educarli. A cui i piccoli leader contrappongono il disegno oltranzista di Ubu, «uno stato gassoso che fa pensare all’intestino tenue».

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