Le prime mostre sugli anni ottanta vennero organizzate a fenomeno in pieno svolgimento: nel 1982 «Zeitgeist» (Spirito del tempo) a Berlino e nel 1985 «Anni ’80» a Bologna. Tale era la voglia di nuovo, di rompere da un passato grigio e difficile, che non si faceva neppure in tempo a vedere la fine di un fenomeno e già si sentiva l’esigenza di leggerlo, definirlo, capirlo.
Poi, un lungo silenzio, almeno in Italia. Sull’epoca più interessante, creativa, vertiginosa e ricca del nostro dopoguerra, è calata una strana coltre di rimozione. In molti hanno preferito ricordare, degli anni ’80, i primi cinepanettoni, l’«Italian disco», la tv demenziale di Arbore e il Drive in, le sfilate a via Montenapoleone, insomma la parte più goliardica e frivola, piuttosto che la straordinaria accelerazione verso il pieno ingresso del nostro Paese nella postmodernità. Quasi che Tangentopoli avesse azzerato, nel giudizio comune, quelli che (a dirla con Renato Zero) non esiteremmo a definire «i migliori anni della nostra vita».
Abbiamo dovuto perciò aspettare più di un quarto di secolo per assistere alla ricomparsa di una lettura laica e non pregiudiziale, almeno sul piano estetico-fenomenologico. Merito della mostra «Gli anni ’80», appena aperta al Serrone della Villa Reale di Monza, e del suo esauriente catalogo, entrambi curati da Marco Meneguzzo che di quel tempo è testimone diretto senza alcuna nostalgia da reduce.
Rispetto ad altre rassegne onnicomprensive e plurilinguistiche, tipo quella sugli anni settanta andata in scena nel 2007 alla Triennale di Milano, la mostra di Monza fissa un punto al centro del discorso. Ovvero, la pittura ha traghettato l’arte nell’era contemporanea, diffondendosi capillarmente in tutto l’Occidente, dall’Italia alla Germania, dagli Stati Uniti all’Est Europeo. Negli anni ottanta qualsiasi artista che volesse dirsi attuale se ne fregava di installazioni complicate e del concettuale più ostico: prendeva colori e pennelli e dipingeva figure. Per la prima volta nella storia, per andar di moda bisogna volgere lo sguardo al passato. Si interrompe così la linea evoluzionista, il pensiero darwiniano applicato all’arte, e si può finalmente spaziare liberi, tra alto e basso, sacro e profano, tragico e comico.
Senza dubbio l’Italia produce la miglior pittura, per qualità e quantità. Oltre all’epifenomeno della Transavanguardia, fondata da Achille Bonito Oliva nel 1979 e impostasi rapidamente nei musei europei e americani, tanti altri giovani pittori si sentono finalmente autorizzati a liberare il talento: gli Anacronisti si divertono a rifare lo stile del Manierismo cinquecentesco con un’ardita trasposizione concettuale, i ragazzi della Nuova Scuola Romana di via degli Ausoni mescolano immagini a simbologie astratte, oltre ad alcune figure solitarie al di là del gruppo, Salvo e Ontani, Longobardi e Maraniello. Non c’è solo la storia antica cui rifarsi, ma anche un tempo recente su cui la cultura marxista aveva messo il veto assoluto. Pittori come Sironi, Funi, Carrà, accusati di essere l’espressione visiva del Ventennio, sono stati cancellati dalla critica sessantottina. Negli anni ottanta vengono finalmente letti per il loro indiscusso valore, non solo riabilitati, ma presi ad esempio di stile italiano, segno che la persistenza della tradizione può giocarsela con lo sperimentalismo avanguardista.
Il resto del mondo non sta certo a guardare. In Germania i Nuovi Selvaggi stabiliscono un ponte tra l’Espressionismo degli anni venti e le visioni di una nazione ancora divisa e devastata: Kiefer, Baselitz, Lüpertz, giganti della pittura, non hanno però lo spirito ironico e sarcastico dei colleghi italiani e inscenano seriosamente il dramma della storia che sta per giungere alla fine. L’America è come sempre un coacervo esplosivo di tendenze, individualità, stili e contraddizioni: il mainstream delle grandi gallerie rappresentato da pittori come Schnabel e Salle, l’underground eccessivo e chiassoso della Graffiti Art di Haring, Basquiat e soci, né si può dimenticare l’ottima salute della pittura astratta, dalle rigide geometrie di Peter Halley alla cupa simbologia di Ross Bleckner.
Altrove, pur non registrando movimenti così ampi come in Italia, Germania e Usa, spiccano altri pittori di altissimo livello: in Spagna Miquel Barceló e Sicilia, in Francia Combas e il fantastico visionario Garouste, in Danimarca Kirkeby, persino a Praga (allora succursale dell’Urss) c’è chi ironizza sulle similitudini tra capitalismo e socialismo reale attraverso una pittura beffarda e naïf, il geniale Milan Kunc.
Si può spiegare soltanto come una moda il dominio della pittura negli anni ottanta? Certamente no. Piuttosto l’arte del dipingere rappresenta meglio di tante altre il cambiamento epocale in corso. Una società nuova, vogliosa di uscire e mettersi in mostra, allontanare da sé divisioni, ideologie, settarismi. Un’arte che parli a un gran numero di persone, che possa essere acquistata, esposta sui muri di casa propria, che non rappresenti solo l’opera in se stessa ma anche uno stile di vita.
Quando si parla di stile degli anni ottanta si intende soprattutto quel periodo che va dal 1979 al 1985. A metà decennio tutto è già formato e qualcosa persino concluso. Dall’arte al design, dalla moda alla musica, dalla tv commerciale alla politica i fenomeni più significativi si sono ampiamente stabilizzati, anticipando la storia e la cronaca quotidiana. Certo è che nel nostro Paese non si sarebbe potuto trovare terreno fertile se non ci fossimo allontanati, per la prima volta, dal predominio delle due chiese simboleggiate dai due partiti egemoni: la Dc e il Pci. L’Italia che scopre di avere una nuova velocità si rispecchia nell’ipotesi riformista del moderno leader socialista, Bettino Craxi, uomo simbolo di un'epoca anche nelle sue contraddizioni.
«Erano aaaanni che non mi divertivo così», chiosava il Ponchia, l’immortale Diego Abatantuono in Marrakech Express. Anni fantastici per colpa dei quali abbiamo pagato un prezzo davvero alto. Dopo averli condannati e sbeffeggiati, oggi qualcuno sostiene (anche tra i testi in catalogo) che in realtà già tutto era in nuce nel decennio precedente e che gli «Ottanta» non hanno fatto altro che coglierne i frutti.
Tentativo di assumersi una paternità a lungo negata, o più prosaicamente appenderci il cappello, per l’ennesima volta. Dopo aver dileggiato la pittura alla stregua dei paninari, il timido residuo della critica di sinistra vorrebbe farci credere che anche quella era roba loro. Ma noi non ci caschiamo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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