I giovani iraniani si mobilitano Presidenziali mai così serrate

Oggi si vota. Rafsanjani resta favorito ma l’affluenza alle urne rischia di essere più alta del previsto. E per la prima volta in 26 anni si ricorrerà al ballottaggio

Gian Micalessin

da Teheran

Ci sono quelli della notte. I ragazzi con le bandane, un braccio sul volante e uno teso nell’aria. L’amica o fidanzata è dall’altra parte, come una bandiera sul finestrino, il velo precipitato sul collo, i capelli al vento. Stridio di freni, squillo di clacson, urla d’eccitazione, autoradio a tutta birra. È Valjasr a mezzanotte. La grande arteria alberata, la salita agli agiati quartieri settentrionali è un carosello d’auto impazzite, l’improvvisato terreno di sfida per centinaia d’inebriati ragazzi su quattro ruote.
«Rafsanjani vuole darci più libertà? - urla una risata sguaiata da un finestrino - meglio approfittarne subito, finché sbirri e bajisi devono starsene a casa, tanto dopo le elezioni tutto sarà come prima. Siamo qui per divertirci, non per votare». Poi ci sono quelli di giorno. Quelli caricati da polizia e corpi speciali mentre, ieri mattina, manifestano contro il voto sulla stessa Valjasr.
Due volti, due immagini di una campagna elettorale iniziata sottotono e deflagrata in grande battaglia. Una battaglia in cui loro, i giovani, sono i soli grandi elettori. E non perché lo decida Hashemi Rafsanjani, l’ex presidente in turbante che - dopo 26 anni ai vertici della Repubblica islamica - manda schiere di ragazzine in pattini a distribuire volantini con il suo nome.
Semplicemente perché qui due terzi degli oltre 47 milioni di elettori ha tra i 16 e i 30 anni e il loro voto significa la presidenza. Rafsanjani pensava di comprarseli in blocco con le sue pattinatrici leggiadre, le garanzie di lavoro sicuro, gli spot elettorali girati dal regista più caro agli adolescenti e la promessa di trasformare l’Iran in un Paese normale, capace di dialogare con Stati Uniti e il resto del mondo.
Un discorso semplice ed efficace quello di Rafsanjani «sono qui da sempre, conosco il sistema e a differenza del mio predecessore Khatami so come trattare con il potere clericale, i conservatori e la suprema guida Alì Rafsanjani. Votatemi e cambierò il Paese». Un programma perfetto. Grazie alle divisioni dei riformatori lacerati tra chi voleva votare Mustafa Moin e chi predicava il boicottaggio, quel manifesto sembrava la garanzia di una facile vittoria.
Ma il vecchio squalo potrebbe aver sbagliato i conti. A furia di venir evocati adolescenti e ragazzi, giovani donne e disoccupati iniziano a guardarsi attorno. A pensare al voto e dimenticare i propositi d’astensione. E così ieri mattina l’ayatollah Taha Hashemi, ex direttore di giornale, attuale ministro senza portafoglio e attivissimo stratega della campagna di Rafsanjani, ammette la battuta d’arresto: «Non vinceremo al primo colpo, Hashemi domani non supererà il 50 per cento, andremo al ballottaggio».
Non è una sconfitta, ma è un gran brutto segnale. I sondaggi fermi per settimane su un’affluenza inferiore al 50 per cento si sono impennati e puntano ora oltre il 60 per cento. Insomma troppa gente alle urne. Soprattutto troppi giovani pronti a votare non per Rafsanjani, ma per Mustafa Moin, l’ex ministro della Cultura senza speranze fino a qualche giorno fa. Ora invece è l’outsider, la grande sorpresa. Ha sloggiato l’ex pasdaran ed ex capo della polizia Mohammed Baqer Qalibaf dal secondo posto e combatte armi alla pari con il vecchio squalo.
Ci pensa e sorride nella sua casa affacciata sulla Valjasr il 74enne Ebrahim Yazdi. Lui - ex ministro degli Esteri nel primo governo Khomeini e subito dopo indefesso oppositore passato per tribunali e galere - vorrebbe non dire cosa pensa e cosa sa della vecchia conoscenza Rafsanjani. «Semplicemente - nota sorridendo - non è l’uomo da cui attendersi cambiamenti, da un mese parla di riforme, ma non ne illustra neppure una». Per Yazdi il vecchio squalo è solo uno dei protagonisti della cosiddetta «opzione cinese». «Vorrebbe seguire la strada dei comunisti di Pechino - continua - eliminando il dissenso politico e concedendo in cambio maggiore libertà sociale ed economica, ma dimentica di aver messo in piedi una Repubblica islamica. In Cina il partito poteva accantonare l’ideologia e tenere il potere, ma qui rinunciare all’Islam significa per i clericali perdere tutto. Per questo neppure lui andrà lontano».
Poi un altro lo sorriso lo porta più lontano di domani, a quel prossimo venerdì quando la sfida Moin-Rafsanjani deciderà il futuro del Paese.

«Domani faremo fuori Qalibaf e i vecchi militari, ma al ballottaggio potrebbe essere la volta del vecchio turbante. Se i giovani sosterranno Moin al secondo turno possiamo battere il numero due della Repubblica islamica. A quel punto, credetemi, la battaglia riformista avrà la strada spianata».

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