I giovani rampanti della Gea col motto «mi manda papà»

Cristiano Gatti

Certo ci sono reati più pesanti e risvolti molto più inquietanti, ma alcune frattaglie dello scandalone sollevano curiosità particolari. Per esempio questa: ma davvero Lippi aveva bisogno di telefonare a Moggi per strappare lo sconto del 23 per cento sull'acquisto di una Lancia Musa? Con i contratti e i volumi d'affari che girano nel calcio, le gente normale è indotta a pensare che i grossi personaggi potrebbero tranquillamente comprarsi intere concessionarie, a prezzo pieno. Invece no: le intercettazioni rivelano una consuetudine minimalista, quasi dimessa, come usa nelle modeste dimore dei ceti meno abbienti, dove davvero l'acquisto di un'utilitaria diventa un problema (d'altronde, è una simpatica regola della vita: ai ricchi, che non ne hanno bisogno, regali e sconti, ai poveri, che ne hanno bisogno, due dita negli occhi).
Eppure non bisogna essere superficiali, nei giudizi. Se Lippi si sbatte per strappare lo sconto, non è per sé. Ma per i due figli. Anche lui, come tanti padri di questa penosa vicenda nazionale, fa tutto per i figli. È ora di dirlo forte e chiaro, dopo due settimane di fango nel ventilatore: i più grandi personaggi del drammone sono mossi da sentimenti nobili e istintivi, spettacolo simile alla belva feroce che protende le mammelle ai suoi piccoli. Teneramente.
Guardiamoli, questi poveri figli d'Italia sbattuti sulle prime pagine. Ce lo dicono e ce lo ripetono sempre: è durissima, portare certi cognomi. Dal di fuori, agli invidiosi che hanno padri operai e padri insegnanti a salario fisso, sembra che chiamarsi Moggi, o Geronzi, o De Mita, o Cragnotti, o Tanzi, o Calleri, o Lippi, possa in qualche modo aiutare, nella vita. Che so: evitare concorsi pubblici, umilianti colloqui d'assunzione, lunghe liste d'attesa agli uffici di collocamento. A prima vista sembra così, ma è una sensazione superficiale. Quasi un volgare luogo comune. In realtà, certi cognomi «pesano». Ce lo spiegano loro, i poveri ragazzi che li portano: tutta la vita a subire confronti, ad essere riconosciuti, a dover spiegare che sei proprio il figlio di...
Quasi a voler risarcire i diretti discendenti di tanto disagio esistenziale, i senior si attivano alacremente per insegnare almeno un mestiere. Vuoi negare, ai figli che crescono, una società che controlla 262 giocatori, 29 allenatori, 31 dirigenti? Poi facciano loro. Devono imparare a fare da soli. A camminare con le proprie gambe nella terribile jungla della vita. Così, difatti, loro fanno. Tagliano subito il cordone ombelicale, in un impeto di orgoglio e di autonomia. Vogliamo forse dire che strada facendo, una volta fondata la Gea, i figli di hanno continuato ad agire con i rispettivi papà? Basta vedere l'intercettazione più fresca, quella che riguarda Davide Lippi, figlio del ct: incontrando lo juventino Blasi a Coverciano, gli dice di mollare il suo procuratore e di tornare alla Gea, perché per i giocatori Gea il babbo ha un occhio di riguardo in azzurro. Punto, tutto qui. Nessuno può trarre conclusioni affrettate e maliziose: Lippi senior e Lippi junior, come Moggi senior e Moggi junior, come tutti i senior e tutti gli junior vanno ciascuno per la propria strada. Com'è evidente, come chiunque può immediatamente supporre. È una cattiveria da piemme pensare che tra padri e figli permangano legami. Lo dice anche l'antico adagio biblico: i colpi dei padri non ricadono mai sui figli.
Che poi Lippi senior si preoccupi di strappare uno sconto del 23 per cento sulla Lancia Musa, a beneficio di Junior Davide, questo non aggiunge nulla allo scandalo.

Quanti italiani, conoscendo bene Moggi, non chiederebbero lo sconto sulla Musa del figlio? Più che altro, una volta finito l'inchiestone, fra dieci o quindici anni, bisognerà soltanto aggiornare la storia e il vocabolario del nostro costume. L'Italia non è la viziata terra del mammismo. È solo e semplicemente la beata nazione dei figli di pappa. Pronta.

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