I gip costretti al copia-incolla di fronte ai teoremi dei pm

di Vincenzo Vitale

Il pacchetto di riforme sulla giustizia presentato dalla maggioranza di governo è senz’altro molto articolato e pieno di buone iniziative, ma forse se ne potrebbe aggiungere un’altra di non indifferente significato.
Se infatti è necessario elaborare un’idea nuova che sappia mettere in grado la magistratura di liberarsi dal germe politico che ne disturba l’attività (ed in questo senso si muove il progetto governativo), tuttavia non è sufficiente, per lo meno allo scopo specifico di consentire che l’udienza preliminare - che collega la fine della istruttoria al dibattimento - possa davvero funzionare.
La questione è nota perché da decenni occupa la riflessione dei giuristi e dei politici: quello che doveva essere uno snodo determinante fra l’attività istruttoria e la prosecuzione del processo, vale a dire l’udienza preliminare, è clamorosamente fallito.
Il compito del giudice dell’udienza preliminare - come previsto dal codice di procedura penale - era di somma importanza, dovendo egli archiviare rigorosamente tutto ciò che, allo stato degli atti, dovesse sembrare non degno di essere portato all’attenzione del giudice del dibattimento.
In quella sede - detta appunto preliminare - il giudice doveva insomma operare una prima importante scrematura, bloccando tutta una serie di procedimenti prima ancora del giudizio, in quanto ragionevolmente non suscettibili di condurre ad una dichiarazione di responsabilità dell’imputato.
Riservando in tal modo al dibattimento soltanto ciò che davvero fosse meritevole di essere giudicato, si reputava che almeno un terzo di tutti i procedimenti sarebbero stati archiviati in sede preliminare.
Così purtroppo, come ha dimostrato l’esperienza di questi ultimi due decenni, non è stato: l’udienza preliminare non ha funzionato, in quanto il giudice ha spesso preferito rinviare comunque al giudizio del dibattimento, rifiutando di mettere in essere quel filtro che invece il legislatore del codice di procedura aveva auspicato e sul quale tanto avevano puntato gli stessi utenti della giustizia allo scopo di fluidificare il lavoro dei Tribunali.
Spesso poi ai problemi teorici, si aggiungevano quelli pratici che a volte risultavano più gravi dei primi.
Uno dei più gravi è dato dal rapporto numerico fra pubblici ministeri e gip nei singoli Tribunali, troppo spesso sbilanciato a favore dei primi. Così, per esempio, se in un grande Tribunale come Napoli o Palermo lavorano ottanta pubblici ministeri, è chiaro che quindici o venti gip sono di fatto insufficienti a smaltirne le richieste in modo sufficientemente ponderato: incomberà su qualcuno di essi pur sempre la tentazione di adagiarsi sulle conclusioni del pubblico ministero, sia perché più tranquillizzanti, sia perché è di fatto impossibile leggere e valutare con debita attenzione migliaia e migliaia di pagine al giorno.
Consapevole di questo problema, il ministero di Grazia e Giustizia, diversi anni or sono, chiese ad una apposita commissione di eminenti giuristi di proporre una soluzione pratica che fu presto trovata: per garantire il lavoro dei gip, occorre che la proporzione numerica fra questi e i pubblici ministeri sia di uno a tre, ma non maggiore. Insomma, ogni tre pubblici ministeri ci vuole un giudice, altrimenti questi - se deve interloquire con cinque o sei pubblici ministeri (come di fatto oggi spesso avviene) - non è in grado di svolgere come si deve il suo ufficio, con grave danno dei cittadini.
Ecco allora come integrare la riforma in discussione sulla giustizia.

Occorre obbligare per legge il Consiglio superiore della magistratura - che istituzionalmente è chiamato ad autorizzare i trasferimenti dei magistrati e a disporre le coperture degli organici - a rispettare in modo rigoroso quella proporzione numerica fra pubblici ministeri e giudici della udienza preliminare.
E ciò non nell’interesse dei giudici, ma di tutti noi: l’accusa, infatti, non può - né deve - mai prevalere in linea di principio sul giudizio.

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