I giudici arrestano la finanziaria

Minacce e ricatti: i magistrati non vogliono ridursi i lauti compensi neppure di un euro. Alla fine la spunteranno, sostenuti da sinistra e Quirinale che apre un braccio di ferro col governo. E poi parlano di equità sociale nei tagli

I giudici arrestano la finanziaria

Non è la crisi economica il vero rischio che corre il Paese. Assai più minacciosa appare negli ultimi giorni la piovra della politica, con i suoi riti bizantini, con i poteri dello Stato che tirano per la giacchetta il governo con ricatti e minacce. Una volta i giorni della manovra finanziaria erano quelli dell’assalto alla diligenza, nei quali ognuno cercava di mungere il più possibile mamma Stato. Oggi, che c’è da tirare la cinghia, sono invece quelli della difesa di privilegi duri a morire, dei sacrifici necessari se imposti ad altri, dei posizionamenti per preparare ribaltoni politici che sono possibili solo nella testa di eterni sconfitti e di impossibili vincitori. Ognuno ha i suoi santi protettori. Chi al Quirinale, chi nella maggioranza o minoranza di governo, chi nell'opposizione. La cronaca della giornata è kafkiana: la finanziaria non è stata firmata né da Berlusconi né da Napolitano, sì è stata firmata ma solo da uno, no forse lo sarà presto da entrambi. Insomma, non si capisce nulla, se non una cosa: ha ragione il premier quando si lamenta che in questo Paese comandare e decidere è impossibile, tanti sono i lacci e i lacciuoli imposti da una Costituzione ormai fuori dal tempo e da poteri che vivono e operano in eterna invasione di campo. Primi fra tutti il Quirinale e quello giudiziario.

La questione è nota. I magistrati si sono ribellati all’idea di vedere decurtate le proprie retribuzioni sopra un certo, non irrilevante, reddito. Hanno minacciato lo sciopero manco fossero metalmeccanici che campano con 1.200 euro al mese. A difenderli sono scesi in campo quelli che a parole sostengono che se sacrifici devono essere, che paghino le fasce più ricche. Evidentemente per questi signori (la sinistra tutta, Di Pietro, il presidente Napolitano), una toga che guadagna oltre ottantamila euro l’anno è da considerare povera, socialmente ed economicamente fragile. Alla fine, probabilmente, l’hanno spuntata, tanto che i magistrati hanno sospeso lo stato di agitazione. Innescando così l’inevitabile protesta di deputati, senatori, alti manager di Stato e baroni universitari che erano stati pure loro chiamati a lasciare l’obolo per il Paese.

La cosa paradossale è che i veri poveri cristi, quelli che il lavoro l’hanno perso o l’hanno precario, sono i primi paladini di questa casta intoccabile, egoista ed egocentrica. A convincerli a scendere in piazza al fianco delle toghe e a firmare appelli contro il cattivo Berlusconi sono altri milionari, da Di Pietro (che campa alla grande con stipendi pubblici e rimborsi elettorali) a Travaglio (ogni libro contro i berlusconiani, beato lui, è una vincita al Superenalotto), a D’Alema (case, barche e tenute vinicole di proprietà). Che il popolo sia bue non lo scopriamo oggi. Ma ora sembra diventato anche fesso.

Esattamente come quei signori della maggioranza, alcuni anche esponenti di primo piano della corte di Berlusconi, convinti che non toccando gli stipendi dei magistrati si avrà in cambio una tregua nell’assalto giudiziario al centrodestra. È da diciotto anni che si calano le braghe inutilmente. Sarà così anche questa volta.

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