I «giusti» del 25 aprile creano imbarazzo al Comune che li patrocina

A Sestri Levante l’assessore presenzia al convegno sulla misteriosa fine dei partigiani «scomodi» e urla al complotto contro la storia

Maria Vittoria Cascino

La magnifica ossessione del 25 Aprile. Che si consuma a sinistra da 60 anni. Che è talmente assoluta da portare all'Internet Café di Riva Trigoso (che se Sestri è rossa, Riva prende fuoco) il giornalista e storico Luciano Garibaldi con il suo libro «I giusti del 25 aprile» (Edizioni Ares, 168 pagine, 12 euro). Giusti, uguale partigiani, no? Quindi il Comune patrocina l'incontro con l'autore e la cooperativa Il Sentiero di Arianna benedice la proposta dei ragazzi dell'Internet Café. Peccato che invece della solita apologia partigiana, sul tavolo finisca l'inchiesta condotta da Garibaldi sulle misteriose morti di tre partigiani illustri che volevano la «riconciliazione» tra fascisti e resistenti. Con Vincenzo Gubitosi che te lo dice già prima d'iniziare che l'argomento è carta vetrata. Con Garibaldi che insiste «facciamola finita con tutto questo odio fra fascisti e comunisti». Tanto basta per alzare il velo. Che Riva, presa in contropiede, sbianca. Che l'assessore ai servizi sociali Mariangela Milanta diventa paonazza quando cerca di spiegare che è stata informata dieci minuti prima, di quell'incontro (nonostante Sestri da giorni fosse tappezzata di locandine). Che, saperlo, si sarebbe preparata e avrebbe chiamato anche l'Anpi per rendere equo il dibattito. Che così non va bene, che i morti sono morti combattendo per ideali diversi, del resto «cosa puoi pensare del kamikaze di Bali, anche se è morto per un ideale». Che con la riconciliazione non possiamo cancellare la storia. Che lei è antifascista, rappresenta l'Unione e voterà Prodi.
Accidenti, la storia del libro è scappata tra le maglie di un equivoco clamoroso. Che brucia perché questa Sestri di sinistra, senza volerlo, ha fatto cassa di risonanza ad un'inchiesta fuori dal coro, «anticomunista», ribadisce l'assessore, che fa neanche tanto buon viso a cattiva sorte, mentre inciampa nei luoghi comuni di una retorica esausta. Tanto basta per scaldare la saletta irreale di via Caboto, con chi piacevolmente stupito plaude l'operazione di Garibaldi e chi alza i tacchi perché certe cose gli bruciano ancora sulla pelle e ad ascoltare in attesa della versione giusta, quella accreditata dai vincitori, non ci sta più. «La partenza la dà Pansa con “Il sangue dei vinti” - insiste Gubitosi -. L'invito ad accettare la storia nella sua completezza. Lui che fa scandalo perché non ha pregiudizi, ma cerca la verità. Avevano sempre torto i vinti? Non credo. Se assumiamo una posizione drastica finiamo per falsare la storia». Èla favola bella della «memoria condivisa», per dirla con Pansa, che si augura almeno di arrivare ad una «memoria accettata» di quella guerra civile che dal '43 al '45 dilaniò l'Italia. Tutto qui.
Ma Garibaldi ti piazza un sottotitolo che manda in bestia il Comune promotore: «Chi uccise i partigiani eroi?» Come, chi li uccise? E sì, perché i tre «giusti» sono Aldo Gastaldi «Bisagno», comandante della Divisione Cichero che combatté contro fascisti e tedeschi sull'Appennino ligure-emiliano; Ugo Ricci «il capitano», l'eroe della Resistenza in Val d'Intelvi e Edoardo Alessi «Marcello», comandante della «Prima Divisione Alpina Valtellina».Garibaldi, a 60 anni dalla Liberazione, apre un'inchiesta che invita a riflettere, a fare esami di coscienza, perché «è tempo in Italia di arrivare ad una riconciliazione. Quella stessa che volevano raggiungere i tre eroi con il nemico sconfitto. Se fossero vissuti dopo la Liberazione avrebbero sicuramente impedito che fosse sparso il sangue dei vinti», insiste l'autore. Che ha diviso il libro in tre capitoli, uno per ogni partigiano, dove ne indaga la vita e la morte.
«Ma è la vita che conta». La vita di tre eroi della Resistenza, che stavano dalla parte dei vincitori e volevano l'unione del popolo italiano. Che erano ufficiali del Regio Esercito. Che erano uniti da una profonda fede religiosa. La stessa che faceva scrivere a Gastaldi nel «codice di Cichero»: «Sono rigorosamente vietati bestemmie e turpiloquio». Che gli fece recuperare alla guerra di Liberazione il battaglione Vestone della Divisione Alpina Monterosa, il suo capolavoro tattico. Vivi di quei sentimenti monarchici e patriottici che resero Ricci autore di colpi di mano incruenti, come la resa della Decima Mas, di stanza all'ex Collegio vescovile di Porlezza. Ricci intimò a tutti di deporre le armi senza sparare un colpo. Ma Ricci e Alessi furono uccisi nel momento culminante della loro battaglia. Da chi? «Di chi furono i proiettili che li massacrarono? Dei partigiani o dei fascisti?», incalza Garibaldi. Che ha trascritto le testimonianze di chi c'era, di chi li conosceva bene, di ha visto come questi uomini tutti d'un pezzo creavano sospetto.
«Ricci viene ammazzato prima del 25 aprile, nella battaglia di Lenno, nel tentativo di catturare il ministro Bufarini Guidi per scambiarlo con partigiani prigionieri. Succede qualcosa, raffiche di mitra e qualcuno che urla “tradimento”. Bufarini però non c'era». Sulla morte del colonnello Alessi invece ci stanno lavorando da anni «i tre moschettieri» come li chiama Garibaldi, tre carabinieri in pensione che non si sono mai persuasi delle circostanze della sua morte. «Era il 26 aprile quando pare che 300 fascisti armati (strano per quella data) abbiano circondato la casa dov'era Alessi con il suo braccio destro, li abbiano messi in fuga e uccisi. C'è una testimonianza raccolta dai tre marescialli che definisce le circostanze della morte dei due ufficiali un'ignominia. Ma la risposta possiamo trovarla solo nella riesumazione del corpo». E poi c'è Gastaldi. «Ruzzolò o fu fatto ruzzolare sotto le ruote del camion di ritorno da Riva del Garda, mentre riportava a casa i ragazzi del battaglione Vestone che avevano combattuto al suo fianco?» Garibaldi scrive che durante il maggio '45, nella sola Genova, furono uccisi in media sei fascisti ogni notte. La maggior parte di loro veniva rinvenuta con una mela in bocca, secondo una macabra simbologia ereditata dalla mafia. «Bisagno gridò ai compagni del Cnl insediati al Bristol di Via XX Settembre che se questa vergogna continuava, bisognava disarmare la polizia e consegnare la città agli americani. Pochi giorni dopo si verificò l'incidente mortale,con tutti i legittimi dubbi». Che si porta dietro «il cugino Dino Lunetti, che ha sempre pensato sia stato ucciso. E il partigiano Santo, che dichiarò di sentire una forte puzza di marcio».
Ma il punto fermo delle loro vite resta uno solo: «Il modo di condurre la guerra contro i fascisti: il non ammazzare. Ed è lo spirito con cui ho scritto questo libro-insiste Garibaldi-cancellare l'odio e riconoscere in Gastaldi, Alessi e Ricci dei grandi italiani».

Solo questo. Garibaldi chiude il libro e lo stringe qualche istante fra le mani. Poi, rivolto all'assessore: «Voleva essere solo un incontro culturale...» Peccato invece che qualcuno ne abbia fatto solo una questione politica.

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